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Tecnologia

Cosa dicono i dati a proposito della frase di Poletti?

La frase del ministro Poletti ci ricorda che, in Italia, è priorità per i giovani conoscere a fondo il mercato del lavoro in cui stanno cercando di entrare.

Parlando di università italiana: per Giuliano Poletti, Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, "Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21".

L'ha detto presso la conferenza di apertura di Job&Orienta, il più grande salone nazionale sull'orientamento, scuola, formazione e lavoro, e l'ha detto, per dovere di cronaca, un perito agrario diventato Ministro a 63 anni. Non serve elencare la ovvia ondata di polemiche scatenate dall'affermazione di #Poletti.

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Leonetto Burresi27 Novembre 2015

Non serve nemmeno ricordare il "choosy" del ministro del Welfare Elsa Fornero e i "bamboccioni" di Padoa Schioppa per sapere che in Italia il conflitto politico e sociale sul tema università è feroce ormai da anni. La critica di Poletti—c'è da dire, estrapolata da un discorso sicuramente più ampio e articolato—si può riassumere in un concetto piuttosto semplice: prima entri nel mondo del lavoro, meglio è. Una brutta stilettata per chiunque stia spendendo diversi anni della propria vita a studiare con l'obiettivo di conseguire un titolo di studio prestigioso.

Poletti è stato incisivo nel suo commento, e altrettanto forti sono state le reazioni che oggi accendono i social network, in particolare Twitter dove "Poletti" è trending topic ormai da diverse ore—impegnarsi per stilare una serie di ragioni per cui Poletti potrebbe o non potrebbe avere ragione sarebbe stupido, vista la gigantesca quantità di fattori che entrano in gioco quando si deve parlare di lavoro. Si può cercare, però, di contestualizzare ciò che Poletti ha detto.

Quello dell'università del lavoro è un problema generazionale? Siamo stati cresciuti troppo bene? Sarebbe meglio affiancare alle ore di studio un po' di sana attività fisica in una qualche miniera di carbone per temprare gli animi prima dell'entrata ufficiale nell'inferno del lavoro? Forse. Ciò che è certo, però, è che il sistema universitario italiano soffre di pesantissimi problemi strutturali che trascendono qualunque tipo di variabile generazionale. L'iter "istituzionale" che dovrebbe guidare un cittadino dai primi anni di istruzione fino all'entrata, presto o tardi, nel mondo del lavoro, soffre di problemi che non possono essere ignorati e che è necessario conoscere per poter riflettere meglio su ciò che Poletti ha detto.

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L'ultimo report dell'OCSE, Education at Glance 2015, parte subito con due buone notizie: in Italia c'è un alto tasso di laureati di secondo livello (3+2) e il 20% dei giovani, in Italia, ottiene una laurea completa, qualche punto percentuale in più della media OCSE del 17%. Finite le buone notizie.

L'affermazione di Poletti si innesta in questo scenario: secondo il report dell'OCSE, come descritto dall'International Business Times, in Italia abbiamo "un livello di occupazione tra chi ha conseguito una laurea triennale di 25 punti percentuali più basso rispetto a Francia e Germania, un tasso di conseguimento della laurea bassissimo e altrettanto basso è il tasso interno di rendimento privato all'investimento in istruzione universitaria."

"Il tasso di disoccupazione degli italiani in possesso di un'educazione terziaria tra i 25 e i 34 anni è quasi il doppio della media OCSE".

Secondo il report, nel 2014 solo il 61,9% degli italiani tra i 25 e i 34 anni con una triennale in mano ha trovato lavoro—per la Francia si parla dell'86.1% e in Germania dell'87.8%. Ancora, "il tasso di disoccupazione degli italiani in possesso di un'educazione terziaria tra i 25 e i 34 anni è quasi il doppio della media OCSE". In Italia, inoltre, i diplomati registrano un tasso di occupazione più alto rispetto ai laureati. Se volete dare un occhio alla situazione degli inoccupati, i neet, anche in questo caso il panorama non è dei migliori.

Infine, un dato che trascende l'istruzione. Quello del lavoro è un passaggio necessario per arrivare all'autonomia personale—alla separazione dal nucleo famigliare e alla generazione di un nuovo nucleo autonomo e indipendente, di fatto, dai "genitori": secondo il "Rapporto di sostenibilità del welfare italiano" del Censis, "il 52 percento dei giovani che vivono da soli riceve regolarmente o secondo necessità aiuti economici dalla propria famiglia. Contando solo i 948mila giovani che dichiarano di ricevere questi aiuti regolarmente, la quantità di denaro erogata ogni anno dalle famiglie italiane ai propri figli che vivono per conto proprio è par a 4,8 miliardi di euro, circa 400 milioni di euro al mese." Lavoro o università, quindi, per i giovani un'iniezione monetaria mensile da parte dei genitori non è solo un comprensibile e "affettuoso" aiuto, ma una vera e propria necessità fondamentale senza la quale vengono a mancare i presupposti per l'autonomia—ma che al tempo stesso vanificano il tentativo di raggiungerla.

Le parole di Poletti vogliono risolvere un problema molto ampio in poche battute, ma senza dubbio devono ricordarci che oggi, in un sistema universitario come quello italiano, sia necessario contestualizzare le proprie prospettive di studi per evitare di uscire dagli atenei con un curriculum di studi perfetto, ma nessuna consapevolezza del mercato del lavoro all'interno del quale ci si sta andando ad innestare.