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Tecnologia

Le elezioni americane di metà mandato hanno incoronato Zuckerberg imperatore del mondo

E se l'esercito di AI e analisti di Facebook è l'unica speranza per difendere la democrazia, allora siamo già fottuti.
Riccardo Coluccini
Macerata, IT
mark zuckerberg midterm elezioni usa_facebook
Immagine: Motherboard

Dopo queste elezioni statunitensi di metà mandato, la vittoria dei democratici alla Camera impallidisce di fronte al controllo acquisito da Facebook sulle nostre democrazie. Grazie agli sforzi per mettere in piedi una war room — una sala di comando sempre operativa contro le fake news — il social network è diventato, in un colpo solo, garante del corretto svolgimento delle elezioni in tutto il mondo. E Mark Zuckerberg è riuscito a fare tutto questo sfruttando una propaganda militare astuta per unirci contro il nemico comune che viene dall’esterno.

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Lo scorso settembre Facebook ha inaugurato quella che ha definito una “war room” ovvero una stanza dove più di 20 esperti — fra cui ricercatori, legali, informatici, matematici, e esperti di sicurezza — siedono gomito a gomito per garantire il corretto svolgimento delle elezioni.

Questa retorica militare si diffonde a macchia d’olio su tutti i media e viene ribadita costantemente anche nei post ufficiali di Facebook.

Si tratta di una vera e propria sala di comando per monitorare, prevenire e sedare ogni tipo di campagna informativa che vuole destabilizzare la democrazia, agendo in tempo reale. La stanza è tappezzata di schermi in un caleidoscopio di post, account, e interazioni da monitorare.

Ovviamente, si tratta di un simbolo visivamente potentissimo e Zuckerberg non ha perso tempo prima di aprire le porte a visite organizzate per i giornalisti. Lo scopo è semplice: mostrare a tutti quanto Facebook voglia ripagare gli errori commessi ma allo stesso tempo diffondere subdolamente una propaganda militare contro l’invasione esterna.

Ed ecco quindi i giornalisti pronti a descrivere come nella war room si lavori alacremente 20 ore al giorno — con il rischio che diventino 24 nei momenti cruciali — o pronti a rilanciare il lessico di stampo fortemente militare che vuole la war room come uno "strumento proattivo per anticipare gli attacchi."

Questa retorica militare si diffonde a macchia d’olio su tutti i media e viene ribadita costantemente anche nei post ufficiali di Facebook. In un articolo del 18 ottobre, Samidh Chakrabarti, direttore del Product Management presso Facebook, sottolinea come la sicurezza sul social network sia costantemente “una corsa agli armamenti e per superare gli avversari ci sarà bisogno di migliorare costantemente nel tempo.”

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Zuckerberg si è impossessato completamente del ruolo di comandante supremo in questa battaglia.

Zuckerberg si è impossessato completamente del ruolo di comandante supremo in questa battaglia. Lo scorso 13 settembre, infatti, ha pubblicato sul proprio profilo Facebook un manifesto di oltre tremila parole dal titolo “Prepararsi per le elezioni” — ma forse dovrebbe intitolarsi “Prepararsi alla guerra.”

Il contenuto infatti sembra più una chiamata alle armi, un invito a sottomettersi agli ordini di Facebook. L’obiettivo, scrive Zuckerberg, è quello di difendere le elezioni da interferenze, proteggere la comunità dagli abusi, e fare in modo che le persone abbiano più controllo sulle proprie informazioni.

Inizia così a elencare tutte le misure che ha adottato per il bene della democrazia contro le influenze di attori esterni: una maggiore trasparenza sui post sponsorizzati dai politici, algoritmi di machine learning per scovare account fasulli, la rimozione (unica nel suo genere ma in ritardo) di account legati alla giunta militare del Myanmar accusati di diffondere propaganda, e il raddoppio del numero degli impiegati che si occupano della sicurezza che passano da 10.000 a 20.000.

Zuckerberg mette così in mostra il suo arsenale bellico, cercando di convincere chi non si è ancora arruolato che queste sono le truppe da supportare. E ribadisce come si tratti di una corsa agli armamenti in cui seppur “abbiamo fatto progressi costanti, affrontiamo avversari sofisticati e ben finanziati. Non si arrenderanno e continueranno ad evolversi.”

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La guerra è lunga, in costante mutazione, ma Facebook ha gli strumenti adatti e, soprattutto, si trova nella posizione perfetta per controllare ogni singolo movimento nella sfera digitale. Sta cercando di mostrare come grazie alla sola forza di volontà e al suo istinto innato nell’auto-regolamentarsi può produrre risultati eccellenti — sembra quasi dirci, strizzando l’occhio, che dovremmo concedergli qualche potere in più.

E purtroppo l’abbiamo lasciato nella posizione di potersi arrogare dei meriti assolutamente ingiustificati. All’indomani delle elezioni di metà mandato, infatti, possiamo affermare che alcune operazioni di interferenza sono state effettivamente bloccate in modo tempestivo dal social network.

Alla luce del manifesto di Zuckerberg, però, sembrerà quindi che tutti gli sforzi di Facebook siano serviti: il colosso americano ha contrastato le fake news russe e gli account non autentici iraniani ma in realtà avremo solamente lasciato in mano a Facebook il controllo di una porzione della nostra vita digitale, delegando all’azienda le forme e i modi per agire e controllare la nostra democrazia.

Senza accorgerci, però, che il danno più importante è stato già fatto: abbiamo perso fiducia nei media e nell’informazione in generale. Ogni notizia che contrasta l’opinione del governo viene bollata come fake news. Sul campo di battaglia è rimasto un corpo inerme: la nostra fiducia nell’informazione.

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Come ha sottolineato in precedenza il giornalista Casey Newton su The Verge , la retorica bellica impiegata da Facebook non fa altro che lusingare l’azienda “dipingendola come una superpotenza piuttosto che un gigante tecnologico.”

Il tentativo disperato di individuare un nemico esterno che da lontano abusa della piattaforma non fa altro che allontanare il nostro sguardo dal problema reale. Un problema interno a Facebook: è l’infrastruttura stessa della piattaforma ad essere corrotta.

Malgrado la grande propaganda sulle azioni prese per le pubblicità politiche, in un recente articolo di Vice alcuni giornalisti sono riusciti a manipolare la funzione “Paid for by” mentendo sull’identità di chi sponsorizza un contenuto politico o addirittura impersonando qualcun altro.

Inoltre, a fine settembre, è emerso che Facebook utilizza i numeri di cellulare forniti per l’autenticazione a due fattori — un metodo per garantire maggiore sicurezza contro attacchi informatici — per inviare pubblicità mirate. Quello stesso sistema di sicurezza che Facebook suggerisce ai politici per evitare di vedersi gli account compromessi — e che moltissimi altri utenti normali usano — è utilizzato per sfamare gli obiettivi economici del social network.

Zuckerberg riconosce che poteva fare di più ma non ammette mai chiaramente che Facebook ha cambiato radicalmente il nostro modo di fruire l’informazione e che la sua piattaforma è il problema. Non sappiamo ancora come funziona Facebook e molti dei problemi che pensava di aver risolto sembra siano rimasti ancora lì, in attesa di qualche ricercatore indipendente disposto a scovarli — fino a pochi giorni fa era possibile raggiungere 3 milioni di utenti interessati a Alex Jones e circa 170 mila che sono classificati come interessati a una teoria cospirazionista sul “genocidio bianco.”

In una lunga intervista pubblicata sul New Yorker a settembre , Zuckerberg mostra tutta la sua fascinazione per l’imperatore romano Augusto. E il giornalista, paragonandolo all’imperatore, riassume ottimamente i compromessi che ha dovuto accettare Zuckerberg: “Tra la libertà di espressione e la verità, ha scelto la libertà di espressione. Tra velocità e perfezione, ha scelto la velocità. Tra dimensioni e sicurezza, ha scelto le dimensioni.”

Questi sono i peccati capitali del nostro nuovo imperatore digitale. Sono le cause che ci hanno gettato, come spettatori passivi e inermi, in una guerra che non fa altro che aumentare unicamente il potere dell’imperatore. La minaccia era interna, nel DNA di Zuckerberg, ma non eravamo pronti.

Segui Riccardo su Twitter: @ORARiccardo