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Tecnologia

I più goffi tentativi di contattare gli alieni del Diciannovesimo Secolo

I nostri antenati ottocenteschi avevano una discreta fissa per gli alieni.

Spedire messaggi nello spazio destinati a eventuali esseri extraterrestri intelligenti può sembrare una perdita di tempo, chi ci assicura che qualcuno li riceverà? E sopratutto, è ragionevole aspettarsi che gli alieni assumano forme a noi conosciute? Anche se esiste il rischio di segnalare la nostra presenza a civiltà molto più avanzate rispetto alla nostra—talmente avanzate che potrebbero annichilirci in pochi istanti—vale la pena intraprendere questo genere di sforzi.

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Tempo fa, ad esempio, vi abbiamo raccontato del sito da cui lasciare un messaggio che raggiungerà la Stella Polare tra 434 anni (avete tempo fino a questo autunno per decidere cosa scrivere). Come spiegato, invece, quando ci siamo interrogati sul rinnovato interesse di Stephen Hawking per gli alieni, questo contest invita ad eseguire lo stesso esercizio di immaginazione con la serenità di sapere che in realtà non verrà inviato nulla nello spazio.

Comunemente si tende ad associare questi tentativi dall'esito incerto all'invenzione delle trasmissioni radio. Quello che non tutti sanno è che anche i nostri antenati del Diciannovesimo secolo avevano il pallino di contattare i cugini celesti. All'epoca i potenziali obiettivi erano molto più a portata di telescopio: si guardava relativamente molto più vicino a noi, alla Luna, a Marte, o comunque al nostro stesso sistema solare. D'altronde, Giovanni Schiapparelli, non era di certo l'unico a illudersi che le superfici desertiche del Pianeta Rosso fossero ricoperte di canali. Ben più di uno scienziato aveva iniziato a interrogarsi su come contattare i nostri coinquilini di sistema solare nel modo più visionario possibile.

Nel 1820, Carl Friedrich Gauss pensò che il modo migliore per contattare eventuali abitanti della Luna fosse quello di impiegare in maniera più creativa la tundra siberiana disegnandoci sopra delle figure geometriche di proporzioni tali da risultare visibili dal nostro satellite naturale. Basandosi sul presupposto che la matematica e la geometria sono dei linguaggi universali, se i Seleniti avessero ammirato la dimostrazione del Teorema di Pitagora in formato gigantesco non avrebbero potuto fare a meno di dedurre che siamo un popolo civilizzato.

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Joseph von Littrow, dell'Osservatorio di Vienna, nel 1840 propose di disegnare anche nel suo caso gigantesche figure geometriche, però scavando trincee larghe circa 32 chilometri, da riempire con una soluzione contente cherosene, da incendiare di notte garantendone la visibilità da lontano. Certo, se conoscere il Teorema di Pitagora, assicura di possedere un certo grado di intelligenza, riempire di cherosene dei canali giganteschi per incendiarli non è un comportamento altrettanto intelligente.

Forse era il caso di rimandare le dimostrazioni matematiche. Piuttosto perché non inviare dei segnali luminosi intermittenti con una frequenza palesemente intenzionale, creando l'equivalente interplanetario del telegrafo? Bastava procurarsi solo molti, moltissimi specchi.

Carl Friedrich Gauss aveva concepito uno strumento che che rispondeva al nome di eliotropo, riproducendolo in grande sfruttando 100 specchi da circa 4,5 metri quadrati l'uno, questi avrebbero riflesso la luce solare per renderla visibile dalla Luna.

Come nel caso precedente dei canali pieni di cherosene, anche questa intuizione venne declinata in maniera molesta. Nel 1874, infatti, l'inventore francese Charles Cros, convinto che le macchie osservate su Marte—probabilmente nuvole—fossero città giganti, ideò un metodo per contattarne gli abitanti. Il suo progetto—che tentò a più riprese di farsi finanziare dal governo francese—prevedeva una serie di specchi parabolici utilizzate per riflettere la luce del sole e incidere un messaggio di benvenuto direttamente sul suolo del deserto marziano. Direi che a quel punto nessuno avrebbe potuto biasimare i poveri marziani se questi avessero deciso di replicare con un raggio devastante di altrettanta potenza, una risposta dello stesso tenore "ehm grazie anche per noi è un piacere conoscervi…"

L'astronomo A. Mercier, invece, propose di coinvolgere direttamente il simbolo di Parigi, piazzando una serie di riflettori sulla Torre Eiffel, sempre per catturare la luce al tramonto e indirizzarla verso Marte—i turisti avrebbero senz'altro invidiato la magia delle notti parigine in uno scenario del genere, ma sono piuttosto sicuro che, invece, i parigini si sarebbero incazzati a morte. La versione più bucolica del piano prevedeva di installare questo sistema sulla cima di una montagna in modo da illuminarne il lato in ombra: se i marziani fossero stati abbastanza intelligenti, avrebbero capito che i lati oscuri delle montagne non si illuminano improvvisamente da soli.

Una ricca donna francese istituì il Premio Guzman Pierre, da attribuire a chiunque riuscisse a comunicare con un pianeta e ricevere una risposta in 100.000 franchi, peccato però che nel 1909, l'astronomo americano William Pickering, calcolò una stima del costo di realizzazione di un sistema riflettente visibile da Marte in circa 10 milioni di dollari di allora. Una somma sufficiente a scoraggiare anche il più avventuroso degli investitori. Insomma, se ci siamo evitati queste follie dobbiamo solo ringraziare l'invenzione della radio.