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'Days Gone' sa benissimo che niente fa paura come gli animali zombie

Abbiamo parlato con John Garvin, scrittore del videogioco post-apocalittico 'Days Gone' della scelta di rendere infetta tutta la natura.
Matteo Lupetti
Asciano, IT
days gone mannaro
Immagine: PlayStation

Il nuovo videogioco post-apocalittico per PlayStation 4 Days Gone è stato promosso da Sony soprattutto per le sue enormi orde di zombie molto veloci (si tratta in realtà di esseri umani infetti e non propriamente di non-morti in questo caso) e per il suo mondo dinamico da esplorare in moto. Predoni possono tenderci un agguato in strada e — proprio mentre stanno per sgozzarci — essere a loro volta attaccati da zombie di passaggio. Ma c’è un altro elemento di Days Gone che cattura l’attenzione: gli animali zombie. Lupi, orsi e corvi contagiati dallo stesso virus che ha colpito la popolazione umana.

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“Volevo che [ Days Gone] avesse questa pandemia che contagiasse non solo gli esseri umani, tutti i tipi di esseri umani, ma anche tutti gli animali,” ha detto John Garvin — scrittore e direttore creativo di Days Gone — rispondendo alle domande di Motherboard durante l’evento di anteprima del gioco. “Ne abbiamo introdotti solo alcuni ma volevamo essere sicuri che questo universo di finzione fosse coerente nel raccontare la versione più tetra possibile del mondo.”

Il termine scientifico è “zoonosi,” cioè una malattia che può saltare tra specie diverse e tra esseri umani e animali. “Ci sono molte più malattie di questo genere di quante possa sembrare, dall’influenza all'HIV,” ci ha spiegato via email Alessandro Tavecchio, collaboratore di Motherboard e divulgatore scientifico. “[…] L'influenza spagnola — che nel 1918-1919 ha ucciso più di 50 milioni di persone — fu una zoonosi, probabilmente originatasi da un uccello e poi diffusasi in tutto il mondo tramite animali domestici. La peste nera è una zoonosi; l'antrace, la febbre del Nilo, ebola [sono tutte zoonosi]. Circa il 60% di tutte le malattie infettive umane sono presenti o possono essere trasmesse ad animali non umani [Questo vale per] qualsiasi agente patogeno, dai batteri ai funghi, dai protisti ai nematodi, ma sono in particolare i virus che tendono a essere problematici: evolvono più velocemente, sono più promiscui, possono essere amplificati facilmente da ospiti intermedi, e nonostante non abbiano alcun mezzo di locomozione proprio tendono a viaggiare con molta facilità.”

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"Le zoonosi sono effetti collaterali di pressioni ecologiche che gli esseri umani stessi hanno imposto sul sistema"

“Non è un caso il fatto che se guardiamo nel recente passato abbiamo una serie notevolissima di zoonosi significative,” ha proseguito Tavecchio, chiarendo perché oggi queste malattie siano un tema tanto attuale. “Marburg (1967), Ebola (1976), HIV (1983), l'influenza aviaria (1997), Febbre del Nilo (1999), la SARS (2003), l'influenza suina (2009), la MERS (2012), il virus Zika (2015). Sono — come è sempre spesso più chiaro — effetti collaterali di pressioni ecologiche che gli esseri umani stessi hanno imposto sul sistema. Dai cambiamenti climatici — che cambiano il range di specie vettore e spostano gli ambienti ideali per certi agenti patogeni — alla distruzione degli habitat e le estinzioni di massa — che favoriscono i virus che sono in grado di trovare nuovi ospiti per sfuggire al declino o all'estinzione del loro animale riserva — al fatto che la popolazione umana sia passata da 1 a oltre 7 miliardi in meno di duecento anni — un ottimo terreno di caccia per virus affamati.”

L’idea dell’epidemia zombie come zoonosi non è certo una novità: l’epidemia del film 28 giorni dopo inizia con la liberazione di un gruppo di scimpanzé a cui è stata somministrata una variante della Rabbia, e Resident Evil ha sempre avuto animali infetti come cani e corvi, mutati a causa del contatto con gli zombie umani. Ma è vero che le storie di zombie si sono tradizionalmente concentrate sugli esseri umani, estendendosi a volte ai soli primati in casi come 28 giorni dopo o The Last of Us. Potremmo persino dire che in questo genere gli esseri umani vengono contagiati proprio perché speciali e superiori rispetto agli animali e allora suscettibili a una regressione, a un ritorno allo stato ferino che il non-morto (e l’infetto di Days Gone) può rappresentare.

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In Days Gone, invece, l’intera natura è contaminata — il virus non fa distinzione tra uomo e animale — ed è per questo che la sua zoonosi è potenzialmente così perturbante: dimostra che i confini tra la varie specie — e tra esseri umani e animali — sono ancora sfumati. Siamo così simili che possiamo ammalarci per lo stesso virus e non esiste alcuna regressione perché non c’è mai stato alcun progresso. “[Le zoonosi] ci ricordano l'insegnamento di Darwin che più facilmente tendiamo a dimenticare: il fatto che siamo indissolubilmente legati agli altri animali, per origine, per discendenza, in salute e in malattia,” ci ha spiegato Tavecchio.

I protagonisti di Days Gone sembrano rifiutare questa rivelazione e le resistono — come accade in quasi tutte le narrazioni post-apocalittiche — con la “civiltà,” una civiltà (fatta di accampamenti, comunità, leggi e strutture gerarchiche) che si realizza prima di tutto nell’individuazione di qualcosa che civiltà non sia. Lo zombie è attuale anche e soprattutto perché è un mostro “che viene da dentro di noi,” cioè da una delle poche frontiere che ancora esistono e che temiamo per i suoi orizzonti ignoti. Le storie di zombie raccontano questa frontiera che abbiamo dentro e contemporaneamente la gettano fuori da noi, la concretizzano in qualcosa da cui i personaggi possano fisicamente difendersi e che possano escludere dal loro mondo “civile.”

"Volevamo essere sicuri che questo universo di finzione fosse coerente nel raccontare la versione più tetra possibile del mondo."

In Days Gone, questi esclusi hanno vari aspetti. Sono i Furiosi, gli anarchici, i criminali, chiunque non viva stabilmente in un accampamento e i Ripugnanti — una fazione che attraverso dolore e disciplina cerca di assottigliare il confine tra esseri umani e Furiosi e che rappresenta quindi una grave minaccia per un’umanità che cerca in tutti i modi di scacciare questo pensiero. È un’umanità che vuole credersi nettamente divisa dalla Natura, dal paesaggio splendido e crudele delle foreste dell’Oregon attraversate dai protagonisti, e che anzi lotta proprio per ripristinare questa divisione dopo aver rischiato di essere divorata dal buio delle notti post-apocalittiche e dai suoi cieli stellati.

“Volevamo differenziarci dagli altri giochi di questo tipo,” ha raccontato Garvin a Motherboard. “Per cui abbiamo ambientato [ Days Gone] nella bellezza della natura della zona del nord-ovest che si affaccia sul Pacifico, in particolare l’High Desert [in California]: è una natura selvaggia, un posto molto duro — vivo lì — e non è solo il clima ma anche il paesaggio a renderlo tale. È stato plasmato dai vulcani che creavano fiumi di lava, caverne e gravine. Sono paesaggi unici che non ho mai visto rappresentati nei giochi prima d’ora, ed è un ambiente incredibile in cui guidare una moto — è tanto fantastico quanto pericoloso. Se piove la moto inizia a scivolarti via, se nevica è tutto ghiacciato e pericolosissimo.”

Days Gone è quindi una storia su come anche l’uomo sia natura, ma è soprattutto (sia volontariamente sia involontariamente) una storia su come la cultura americana ed europea considerino civiltà proprio ciò che natura non è e viceversa. Eppure già il capostipite di tutti i racconti con epidemie apocalittiche — Io sono leggenda di Richard Matheson pubblicato nel 1954 — ci ha insegnato che spesso oltre la civiltà che noi difendiamo non c’è la natura selvaggia (e “i selvaggi”, gli zombie da uccidere) ma un’altra civiltà, un’altra cultura.