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Una volta per tutte: perché l'università italiana fa così pena?

I dati Eurostat dicono che gli italiani sono i penultimi per numero di laureati e i secondi per abbandono.

Ogni anno le statistiche Eurostat ci ricordano che in Italia abbiamo un grosso problema con l’istruzione. Dai dati provvisori circolati sulla stampa in questi giorni, per esempio, risultiamo penultimi per numero di laureati (meno di un italiano su sei in età da lavoro), salvati dall’infamia dell’ultimo posto solo dalla Romania, che da circa dieci anni compete con noi per il fondo della classifica.

Eppure l'impressione che si ha molto spesso è che di laureati ce ne siano anche troppi. Come mai? Perché, se è ancora poco diffusa, la laurea ha così scarso credito? La risposta sembra facile: non dà lavoro. E in parte è vero: in Italia l’istruzione universitaria è pochissimo valorizzata, anche per via di un sistema produttivo in cui piccole imprese, agricoltura e terziario penalizzano i laureati (e ancora di più le laureate). Ciononostante, anche se meno che altrove, laurearsi conviene, perché le probabilità di trovare lavoro sono maggiori (sì, anche per quelli di scienze umanistiche) e il reddito è più alto. Chiaramente, se si è disposti a mettere in gioco un certo numero di anni.

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In pratica qualche incentivo c’è, ma non basta né a convincere chi non si iscrive né a incoraggiare chi lo fa. La sensazione diffusa anche tra molti laureati, insomma, è di un titolo di studio squalificato e che ha perso prestigio.

Nelle facoltà umanistiche—quelle che conosco meglio, avendole frequentate—la demotivazione è palpabile e partire già dall’iscrizione, che spesso non è altro che il nuovo, naturale passaggio di stato tra il liceo e il fantomatico “altrove” del “mondo del lavoro”. È una demotivazione dolce, perché alla consapevolezza più o meno sotterranea che il proprio futuro di precariato e dannazione è solo rimandato, si accompagna il rassicurante presente di un microcosmo ovattato in cui l’ansia da esame è il peggiore dei mali e può essere curata con un po’ di birre in chiostro.

Qualcuno però da questo utero caldo viene espulso in modo brutale. Tornando ai dati Eurostat (stavolta relativi al 2016), l’Italia è seconda in Europa per numero di abbandoni dopo la Francia e le motivazioni sono interessanti, per quanto difficili da cogliere in un’indagine statistica. La maggior parte abbandona per la voglia di lavorare: più i maschi, perché le femmine, socialmente meno motivate sul piano lavorativo (lo dice anche questa indagine dell’OECD) lasciano gli studi soprattutto per “motivi famigliari”, oltre a scegliere più spesso corsi non proprio all’avanguardia quanto a sbocchi lavorativi.

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C’è poi il discorso delle lauree specializzate. Non tutti quelli che si iscrivono all'università lo fanno per avere più argomenti con cui pontificare o sperando in una non ben precisata carriera nel mondo della cultura. C’è anche chi ha in mente un lavoro preciso ma pensa che cinque anni, più tirocini, abilitazioni, CFU mancanti e concorsi per fare il maestro d’asilo siano semplicemente troppi.

I motivi economici ci sono, ma incidono relativamente poco, mentre una ragione importante è la delusione nei confronti della propria università o del corso di laurea scelto: troppo approssimativo, troppo teorico, troppo ancorato al passato, poco professionalizzante.

A essere rimproverata un po’ da tutte le parti è soprattutto la distanza dal mondo del lavoro, ma mettere l’accento sempre e solo su questo punto è pericoloso. Ciclicamente, la soluzione che salta fuori è creare nuovi corsi specializzati, quando in Italia esistono ben 2.289 corsi di laurea triennale e 2.181 corsi magistrali. Insomma, il problema non è la scarsità di scelta. Fermo restando che la funzione dell’università non è e non deve essere quella di “insegnare un mestiere” (altrimenti sarebbe un tirocinio aziendale), lo sviluppo di capacità più spendibili dovrebbe essere ottenuto diversificando le modalità d’esame (nel corso di lettere della Statale, per esempio, non si scrive mai), svecchiando i programmi e creando attività integrative che siano davvero utili (i famosi “laboratori” sono sostanzialmente altri corsi frontali).

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Al di là di cosa si decide di frequentare e del rapporto con il lavoro, la percezione della qualità scarsa dell’insegnamento ha delle basi piuttosto solide. È quello che in genere succede quando alle politiche di sostegno si preferisce un generico risparmio. Negli ultimi dieci anni, cioè dalla crisi in poi (che ha coinciso con la riforma Gelmini), mentre il resto d’Europa investiva sempre di più nell’istruzione universitaria, da noi si è fatto esattamente il contrario. E anche se gli ultimi due governi hanno invertito la tendenza, si parla sempre di 7 miliardi l’anno contro i 24 della Francia e i 30 della Germania.

Come spiega l’economista Gianfranco Viesti nel suo nuovo saggio La laurea negata, le conseguenze per gli studenti sono state il calo delle iscrizioni (negli ultimi anni lentamente in ripresa), l’aumento delle rette e le borse di studio insufficienti. Il taglio del numero dei docenti ha portato invece a un blocco del turn over e quindi a professori ancora più anziani. Mentre i tagli alla ricerca, oltre a far fuggire i dottorandi all’estero, hanno creato università poco vive e competitive, senza legame tra ricerca e didattica.

Negli anni che ho trascorso in Statale la sensazione di mancata vitalità si manifestava soprattutto sotto forma di irrazionale, vetusto mostro burocratico in grado di proiettarti in un labirinto kafkiano qualunque questione pratica dovessi affrontare. Programmi d’esame e iscrizioni ai laboratori compresi, dato che navigare in quel sito internet era come frugare in un sacchetto dell’umido. C’era in anche un programma d’esame che esisteva solo in forma cartacea e poteva essere rintracciato solo con il passaparola. Poi c’erano le maledette microfiches (che è un po’ come dire dagherrotipi) su cui bisognava salvare una copia d’archivio della tesi e che sono state sostituite troppo tardi dai PDF. L’impressione di partecipare a rituali farraginosi e senza scopo era enorme e non oso pensare che fine abbiano fatti quei nastri, visto che già alle copie cartacee ogni tanto succedeva questo.

Partendo dal presupposto che negli ultimi cinque anni il meccanismo sia stato un po’ svecchiato, come ascensore sociale l’università italiana resta un fallimento completo. Il background familiare influisce non solo sul conseguimento del titolo ma anche sulla scelta della facoltà. Bisogna aggiungere che i tagli degli ultimi dieci anni hanno danneggiato soprattutto gli studenti degli istituti tecnici e gli atenei del Sud, dove la percentuale di lauree è nettamente più bassa e si risente della fuga—per chi può—verso le università del Centro-Nord. In pratica, se sei laureato ma non hai i genitori laureati, non hai fatto il classico o lo scientifico e sei originario del sud puoi vantarti di essere una specie di unicorno.

A conti fatti quindi sì, l’università italiana fa effettivamente un po’ schifo e serve un intervento radicale: è vecchia, parcellizzata, poco competitiva, molto sotto finanziata e ancora decisamente classista.

Da questo punto di vista però, i dati sui diplomati sono ancora più deprimenti. Quattro italiani su dieci in età da lavoro fermi alla licenza media sono la prova che il problema ha radici più profonde, e che è ora di mettere in discussione, oltre all’università di cui ci si lagna tanto, anche la scuola primaria di cui andiamo così fieri.