Attualità

I cori su Lukaku erano razzisti, punto e basta

Per gli ultras della curva nord dell'Inter, gli insulti razzisti al calciatore dell'Inter non sarebbero razzisti.
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Romelu Lukaku dopo aver segnato su rigore al Cagliari, il 3 settembre 2019. Grab via YouTube/Serie A.

Questa domenica, ancora una volta, ci sono stati insulti razzisti contro un calciatore in Italia: stavolta il bersaglio è stato Romelu Lukaku dell’Inter, subito dopo il rigore segnato al Cagliari nell’ultima giornata di campionato.

La notizia è circolata parecchio all’estero—forse anche più che da noi—e oggi tutte le attenzioni sono puntate sulla reazione della Curva Nord nerazzurra, che critica il suo stesso giocatore anziché difenderlo: “gli italiani non sono razzisti,” dice in apertura la lettera aperta della tifoseria in riferimento anche al post su Instagram in cui l’attaccante belga denunciava l’episodio.

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Strano? No, non tanto. Anzitutto, la Curva Nord dell’Inter è nota per le sue posizioni politiche e i non rari casi di cori razzisti contro giocatori avversari: dopo i “buu” razzisti di Inter-Napoli dello scorso 26 dicembre gli ultras nerazzurri criticarono il difensore senegalese Kalidou Koulibaly, definendolo un “bugiardo e un piccolo uomo.” Non c’è quasi nessuna differenza tra i due comunicati, a distanza di diversi mesi: negazione del razzismo, tentativo di ricontestualizzare i cori in un’ottica puramente sportiva, e ribaltamento delle accuse sulla vittima.

Ad aprile era poi toccato all’attaccante della Juventus Moise Kean, nuovamente nello stadio sardo: il presidente del Cagliari Tommaso Giulini intervenne duramente ai microfoni di Sky accusando chi parlava di razzismo di fare “inutile moralismo,” e disse che la colpa era stata dell’atteggiamento di Kean; perfino il capitano della Juventus, Leonardo Bonucci, si azzardò a dire che “la colpa è 50 e 50”—dei razzisti e del suo compagno.

Cambiano gli episodi o le squadre, insomma, ma la reazione è sempre la stessa: “quello non è razzismo.” Perché, giustamente, devono essere i bianchi a spiegare ai neri per quale tipo di insulti devono sentirsi offesi.

Non è una novità: il calcio fa da tempo da catalizzatore del razzismo, approfittando della fama di zona franca degli stadi.

Faccio qualche esempio. Nel 1989, l’Udinese fu sul punto di acquistare l’attaccante israeliano Ronny Rosenthal: la mattina delle visite mediche, il giocatore fu accolto da frasi antisemite scritte nella notte sul muro della sede del club, e alla fine decise di non concludere la trattativa. Nel 1996, l’olandese Maickel Ferrier stava per trasferirsi al Verona per diventare il primo nero della storia gialloblu; prima che l’acquisto fosse concluso, due tifosi furono visti sugli spalti veronesi durante una partita, mascherati con cappucci del Ku Klux Klan, mentre facevano penzolare un fantoccio nero impiccato con la maglia della squadra di casa.

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Episodi talmente clamorosi che, in altri paesi, avrebbero comportato discussioni, indagini, dure prese di posizione, squalifiche. In Italia, nell’epoca d’oro del nostro calcio, non ci furono conseguenze. I casi non sono mancati e non mancano tutt’oggi in Inghilterra, ma la reazione del calcio locale è spesso molto diversa da quella italiana: poche settimane prima del caso Koulibaly, un tifoso del Chelsea era stato identificato mentre insultava l’avversario Raheem Sterling, e la società lo ha poi sospeso; lo scorso aprile, l’Arsenal ha avviato un’indagine contro un proprio tifoso che, sui social, aveva pubblicato un video razzista sempre contro Koulibaly, annunciando che gli sarà impedito di tornare allo stadio.

In Italia, prima ancora di Bonucci, abbiamo avuto l'allenatore Silvio Baldini che—commentando nel 2005 gli insulti razzisti verso Marc-André Zoro (anche quella volta, a opera dei tifosi dell’Inter)—disse che “il razzismo non c'è soltanto in Italia ma anche in Africa da parte dei neri nei confronti dei bianchi.” Nove anni dopo, il futuro presidente della Federcalcio Carlo Tavecchio si lamentava dei calciatori stranieri che arrivano in Serie A e “prima mangiavano le banane.”

L’ex-allenatore del Milan Gennaro Gattuso, in merito al caso di Koulibaly, intervenne puntualizzando (inutilmente) che comunque “l’Italia non è un paese razzista” e che episodi simili capitano anche all’estero. In merito a Lukaku e alla lettera della Nord, la Gazzetta dello Sport ha definito "chiara" la posizione dei tifosi, sottolineando che i cori erano opera di “una minoranza.” Le solite minimizzazioni, insomma.

Proprio oggi, Giulini ha condannato i cori ma non è riuscito a riconoscere appieno il problema del razzismo tra i suoi tifosi: i razzisti vengono sempre trattati come qualcosa d’altro, di separato dalla tifoseria “vera.” E le soluzioni continuano a latitare; ogni episodio diventa occasione per ricordare che queste cose non devono più accadere, ma dopo qualche mese siamo daccapo.

Ci si dovrebbe rendere conto che non siamo davanti a un problema di educazione sportiva o di ordine pubblico, ma a un problema sociale più vasto, che va sì combattutto—più efficacemente—negli stadi, ma anche fuori da essi.

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