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Attualità

Ho rivisto Gummo vent’anni dopo

A rivederlo oggi, il film distopico di Harmony Korine sembra la cosa più attuale del mondo.

Gummo è del 1997: nel 2017 fanno vent'anni giusti giusti. Quando è uscito io ne avevo otto; l'ho visto per caso una decina d'anni dopo e ricordo che mi è sembrato un po' provocatorio e un po' vuoto, niente di speciale. Poi invece negli anni mi sono fissato con le distopie e l'ho rivisto, finché oggi le distopie si sono prese tutto, anche il mainstream—basti pensare al successo di cose come Black Mirror o Westworld—e Gummo mi torna in mente abbastanza spesso.

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L'ho riguardato recentemente in una di quelle serate in cui non hai voglia di Netflix, ma nemmeno di sbatterti troppo a cercare streaming decenti. Già a rivedere l'intro si sente la fretta di raccontare ansia, disagio e degrado all'americana, roba di miseria e vere e proprie sacche di terzo mondo sotto la stessa bandiera di quello che è il posto più tipicamente occidentale di tutti, gli Stati Uniti. Ci sono le bandiere sudiste attaccate al retro di un pick-up, i mullet biondi e le verande di legno, poi il suono di una motosega e un ragazzetto bianco che mostra i muscoli alla telecamera. Subito arriva la grafica dei titoli di testa che gli pianta una croce rovesciata al centro del petto pallido e la scritta Gummo in germanica, tipo copertina heavy metal.

Considerazione numero uno: il film è bello, nel senso estetico del termine. In pratica una lunga cartolina distopica degli Stati Uniti impoveriti, grezzi e provinciali. Novanta minuti scarsi che sono diventati un piccolo cult, innanzitutto perché le musiche sono di Burzum, Mortician, Sleep e Roy Orbison, poi perché c'è Chloë Sevigny stupenda col costume tigrato che ci prova con un tennista con la sindrome da deficit di attenzione. Il film, più che una narrazione coerente, è un insieme di clip assurde su degrado, tabù e oscenità: tutto quello che resta dopo che un tornado ha distrutto una città. Il sudiciume, l'assenza di igiene, il razzismo, il mangiare animali domestici, l'omicidio, far prostituire la propria sorella malata, uccidere i propri figli—o puntargli una pistola alla testa col pretesto di voler ottenere un sorriso—e ancora l'accumulo seriale, sniffare colla per legno, scappare dalla cittadina disagiata per poter vivere la propria transessualità e via dicendo in una serie infinita di cose "oscene" e disturbanti. In inglese si dice "mindfuck", e in effetti il termine rende bene l'idea.

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Questa sua bellezza però mi porta dritto al punto centrale, al motivo per cui ancora oggi Gummo è un film attuale, per cui ha senso, vent'anni dopo, riguardarlo: le scene citate sopra non sono solo strane, ma raccontano che schifo faceva (e fa) la vita da "white trash", quelli che una volta si chiamavano bifolchi, cioè i bianchi americani poveri e osceni che sembrano una sorta di cicatrice sociale. Ovvero le stesse persone tornate da poco sotto i riflettori perché, dopo essere state sottovalutate politicamente per decenni, hanno contribuito ad eleggere un presidente che pensano le rappresenti.

Harmony Korine non racconta l'incidente, racconta quello che rimane dopo l'incidente. Ovvero non racconta il tornado che ha sparpagliato pezzi di cadavere e detriti dappertutto, ma come dopo il tornado la gente di Xenia, in Ohio, sia tornata a uno status di pre-civiltà: nichilismo, instabilità e depressione sono i sentimenti dominanti per tutto il corso del film.

A rivederlo, Gummo mi è sembrato quasi una profezia: proprio il Midwest in cui è ambientato il film è stato il teatro, pochi anni fa, di una crisi economica e sociale profonda. E quello che in Gummo ha fatto il tornado, nella realtà ha fatto la crisi: un ambiente ex-industriale che una volta offriva lavoro e villette a schiera a immigrati di varia generazione si è ritrovato a vivere una situazione di disagio, rovina, e con interi quartieri abbandonati. È successo a Detroit, è successo anche nella capitale dell'Ohio, Columbus, che sta a solo un'ora di macchina dal posto in cui è ambientato il film.

Nel Midwest, l'espansione industriale era il lenitivo che consentiva di tenere il malessere sotto il tappeto, e il collasso dell'industria ha permesso a tutto quello che si era accumulato—non era mai stato eliminato, era solo nascosto—di venire fuori. Come nel film di Korine, dove il tornado passa e distrugge, ma il tema vero è cosa sbuca fuori dal tappeto una volta che è passato. Ritorna il razzismo, si torna ad ammazzare i gatti e a giocare tra le carcasse delle auto, come nelle zone di guerra. Cosa c'è oggi in occidente di più evidente nel Midwest, dove anche in campagna elettorale, in mezzo a tutti gli scandali, nessuno ha messo in dubbio il proprio voto per Trump?

Dire che in una zona degradata si commettono più crimini è tautologico: quello che serve vedere attraverso la superficie dei comportamenti delle persone è lo schifo che sale a galla quando torna la povertà. Vale per il Midwest, ma anche per l'Europa e per l'Italia, dove molte periferie non sono poi così dissimili da Xenia, il paesino del film di Korine.

Infine, Gummo ha anche un altro livello di lettura, quello del brutto attraente, il degrado che incuriosisce e risveglia qualcosa. Nei primi secondi del film compare un ragazzino con le orecchie da coniglio, sporco e infreddolito, prende a calci la rete di un cavalcavia, sputa verso la strada, trema e fuma da solo. Ovvio che razionalmente non si vorrebbe essere lui—anche perché poi farà una fine assurda, ucciso tra carcasse d'auto—eppure è affascinante, ci si immedesima subito, con lui si risveglia quel sentimento empatico che di solito tende a mancare quando arrivano povertà e indigenza.

E mentre si risveglia questo sentimento, ci si rende conto che la soluzione per la cittadina del film, e per questo tipo di malessere in generale, non può essere l'arrivo di un altro boom economico o di "pulizie" che servono a rattoppare gli strappi con l'elettorato, deve essere più profonda. E ci si ricorda anche che certo malessere è prolifico, produttivo: un sacco di ricchezza, soprattutto culturale, viene fuori solo insieme a tutto il resto che era stato ficcato sotto il tappeto.