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Tecnologia

'The Influencers', il festival che mappa l'ecosistema di internet

Siamo stati al festival di Barcellona per imparare come diventare invisibili e soprattutto perché.
QRCookies al cioccolato. Foto: Miuel Taverna / CCCB. CC BY 2.0

"How do you spend your time?" Durante l'Internet Yami-Ichi, uno degli eventi dell'edizione 2016 di The Influencers al CCCB di Barcellona, un ragazzo mi ha invitato a rispondere a questa domanda pucciando il pollice nell'inchiostro blu e timbrando su un tabellone in uno dei campi a scelta tra: Art, Making Love, Internet, Earning Money.

Dando il mio like ho espresso una preferenza e, contemporaneamente, ho lasciato la mia impronta digitale, una traccia biometrica della mia identità. Così, senza pensarci troppo. Forse perché mi andava di dire cosa faccio del mio tempo a chi passava di lì in quel momento. Un po' come succede quotidianamente sui social.

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The Influcencers è un festival di tre giorni con un numero contenuto di eventi ben curati, poche sovrapposizioni, una sola location, organizzazione impeccabile e ingresso gratuito alla maggior parte degli appuntamenti. Si propone di restituire alcune possibili mappe dell'ambiente Internet, l'ecosistema nel quale siamo immersi e rispetto al quale si possono far emergere, più o meno esplicitamente, campi di forza e di potere, comportamenti individuali e collettivi, nuove declinazioni di estetiche e linguaggi.

Eppure, nel testo di presentazione si legge a chiare lettere: "The only thing we know for sure is that no existing map can be fully trusted". Mappe provvisorie e imprecise, rispetto alle quali le ricerche di artisti, teorici e attivisti sono possibili bussole che insieme permettono di leggere meglio le traiettorie implicite o magari di suggerire come deviare alcune rotte prestabilite.

In questa prospettiva l'Internet Yami-Ichi, un mercatino di gadget DIY dedicati alla rete, è stato il momento in cui si celebra l'appartenenza più quotidiana a questo ecosistema attraverso sticker di gattini, QRCookies al cioccolato e kit per trasformare il proprio smartphone in un proiettore di ologrammi 3D. Allo stesso tempo, il mercatino racconta molto dello spirito di un festival che combina contenuti di spessore con un'atmosfera familiare. The Influcencers è stato e resta un piccolo festival che è diventato una perla nel panorama europeo. Una delle dimostrazioni è il fatto che sia frequentato dalla città come dal pubblico internazionale, che abbia un audience numeroso, partecipe e trasversale.

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Con questa formula ben rodata The Influencers riesce ad essere un termometro puntuale delle trasformazioni nei discorsi teorici e nelle pratiche creative delle zone grigie di sperimentazione tra arte, attivismo, scienza e tecnologia raccontate attraverso talk, workshop e proiezioni.

Tra i film presentati, The Art of Prank (2015), scritto e diretto dall'italiano Andrea Marini, che racconta del guru del pranking Joey Skaggs e delle sue imprese di fake che hanno messo in scacco i media di mezzo mondo, molto prima della nascita di Internet. Un film da vedere per conoscere meglio un genio del cultural jamming. Altro documentario in programma è stato The Story of Technoviking, di Matthias Fritsche, sulla vicenda legata al meme più noto della storia di Internet che ha coinvolto il regista stesso, denunciato dal vichingo per un video pubblicato e diventato un fenomeno della rete ad insaputa del protagonista. Uno spunto per una ricca carrellata di interviste tra artisti, teorici, attivisti, esperti di diritto e curatori che offrono punti di vista plurali sugli interrogativi sollevati in un caso del genere rispetto a questioni come privacy, viralità, condivisione, autorialità, spazio pubblico e beni comuni.

La sovversione in una prospettiva biopolitica delle tecniche di sorveglianza biometrica è stato invece il focus per due degli ospiti principali di quest'anno, gli statunitensi Zach Blas e Heather Dewey-Hagborg.

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L'intervento di Zach Bias. Foto di Miuel Taverna / CCCB. CC BY 2.0

Artista e studioso, Blas conduce da diversi anni ricerche di matrice queer sulle forme di sorveglianza biometrica e sul diritto di tutti gli individui all'opacità. Tra i suoi lavori più noti, Facial Weaponization Suite, una maschera collettiva per hackerare il riconoscimento facciale. I nostri volti sono sempre più schedati, catalogati e confrontati nei sistemi di controllo alle frontiere, nella sorveglianza negli spazi pubblici e nel marketing. Questa standardizzazione dell'essere umano ha conseguenze discriminatorie rispetto a minoranze e gruppi non normativi. Le maschere create da Blas ribaltano l'uso del facial recognition mescolando i dati biometrici di individui diversi.

Maschere differenti corrispondono a corpi collettivi che si contrappongono in modo trasformativo ad altrettante tipologie di disuguaglianze reiterate dalla facial recognition. La Fag Face Mask, forse quella diventata più famosa nei giri della media art e dell'attivismo internazionale, è rosa e mette insieme i dati biometrici di un gruppo di persone queer, in risposta agli studi che ipotizzando di determinare l'orientamento sessuale a partire da alcuni tratti somatici riconosciuti come 'strani'.

Di mescolamenti biologici come tattiche per la guerilla biometrica ha parlato anche Dewey-Hagborg. Artista, teorica e biohacker, collabora da anni con alcuni laboratori scientifici indipendenti e comunitari, tra i quali il GenSpace di Brooklyn, che sostengono il libero accesso alla produzione di saperi scientifici. L'artista ha realizzato una serie di progetti basati sulle implicazioni biopolitiche dell'identificabilità attraverso le tracce di DNA che ciascuno rilascia continuamente negli spazi pubblici. Le sue ricerche puntano l'attenzione sulle tecniche forensi di fenotipizzazione del DNA come una delle forme sorveglianza biologica in espansione e sulle conseguenti possibilità di costruire margini di privacy genetica.

Biononimity Workshop. Foto dell'autrice.

Uno dei progetti che Dewey-Hagborg ha raccontato al pubblico di The Influcencers è Stranger Visions (2012-2013), una serie di ritratti di persone sconosciute, realizzati partendo dalle tracce di DNA lasciate su oggetti trovati in strada, come mozziconi di sigarette o chewingum. L'altro lavoro raccontato è Invisible, un 'tactical kit' per cancellare le tracce di DNA e proteggersi dalle nuove forme di sorveglianza. Un kit che è open e riproducibile ed è stato il centro del workshop Biononimity, durante il quale ciascun partecipante ha potuto preparare la propria pozione di invisibilità. Il processo è in tre fasi e riproducibile da chiunque con sostanze comuni. La più preziosa è però un mix di campioni di saliva o altra traccia di DNA di due individui differenti.

Non credo che userò Invisible per cancellare le mie tracce da bicchieri e mozziconi, sospetto che lascerò ancora molte tracce del mio DNA in giro ma mi piace pensare che l'invisibilità passi attraverso un miscuglio di salive.