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Tecnologia

L'eco delle onde gravitazionali mette in dubbio la Relatività di Einstein

Se il 1905 è ricordato come l'anno migliore per Albert Einstein, il 2016 potrebbe essere ricordato come il peggiore.
Immagine: screen via

Se il 1905 è ricordato come l'annus mirabilis di Albert Einstein, il 2016 potrebbe essere ricordato come il suo annus horribilis. Nonostante l'inizio promettente con la prima rivelazione diretta delle onde gravitazionali grazie dell'interferometro LIGO l'11 Febbraio, la sconfitta definitiva nello scontro contro Bohr sul paradosso EPR subita dopo il Big Bell Test e lo studio pubblicato recentemente da Jahed Abedi, del Politecnico Sharif di Teheran, potrebbe cambiare tutto.

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Procediamo con ordine. La teoria della relatività generale prevede che accelerazioni di un corpo dotato di massa provochino increspature nella struttura dello spazio-tempo, che si propagano come onde gravitazionali. Per far sì che un tipo di onda del genere sia misurabile deve essere generata da un corpo la cui massa è fuori da ogni grandezza "umana": buchi neri, stelle di neutroni o esplosioni di supernove. Nonostante le grandezze mostruose dei corpi in esame, le vibrazioni più forti previste sono dell'ordine di 10-18 metri (il raggio atomico dell'idrogeno è sui 10-12 metri, stiamo parlando di dimensioni un milione di volte più piccole), difficilissime da distinguere da un sottofondo di rumore altissimo: raggi cosmici, rumore termico et simila rendono questo lavoro un'impresa titanica. Utilizzando un particolare strumento quale l'interferometro è possibile quindi leggere queste piccolissime deformazioni previste dalla teoria di Einstein: il LIGO, Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory, è composto da due lunghi tunnel vuoti di 4km ciascuno disposti perpendicolarmente.

Le onde gravitazionali captate a febbraio sono state generate dalla collisione di due buchi neri che, dopo una "danza cosmica", sono collassati l'uno nell'altro.

Due buchi neri che collassano l'uno sull'altro, secondo i dati registrati da Ligo a cura del progratto poliuniversitario SXS (Simulating eXtreme Spacetimes).

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Nonostante l'esperimento non sia stato insignito del premio Nobel, anche probabilmente a causa di alcune scadenze burocratiche non rispettate per la presentazione del progetto ai fini del premio, i risultati sono stati tra i più festeggiati dalla comunità scientifica degli ultimi anni: la teoria della relatività funziona. O forse no.

Dall'analisi degli stessi dati, infatti, il team di Jahed Abedi ha evidenziato come, dopo il segnale delle onde gravitazionali, si siano susseguiti degli "eco".

Nella migliore delle ipotesi la presenza di questi segnali è puramente statistica: la scarsezza di dati in merito ad osservazioni di onde del genere non permette di rimuovere i rumori statistici, ovvero quei dati che esulano dal vero comportamento dell'evento osservato ma che vengono captati a causa, ad esempio, di elaborazioni o acquisizioni errate. Solo mediando su tanti esperimenti sarà possibile distinguere la natura di questi segnali.

Se le ulteriori misurazioni dovessero però confermare questo tipo di segnali, la situazione potrebbe cambiare radicalmente. La teoria della relatività di Einstein prevede infatti che l'orizzonte degli eventi, il limite più esterno del buco nero, non abbia una struttura: un osservatore che malauguratamente attraversasse il confine non noterebbe alun repentino cambiamento nell'ambiente, nonostante le forze di gravità da quel punto in poi lo costringerebbero per sempre all'interno del bucno nero trascinandolo verso il centro, qualcosa di simile ad una singolarità gravitazionale, dove si concentra tutta la materia del buco.

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Ma la relatività non è l'unica teoria che ha provato a descrivere il comportamento dell'orizzonte degli eventi: da una parte abbiamo la teoria delle stringhe che prevede una struttura a "fuzzball", un'estremizzazione della materia degenere, quindi un confine estremamente denso non ben definito, mentre la meccanica quantistica prevede una struttura denominata "firewell", una "barriera" di particelle ad energia elevatissima che annienterebbe qualsiasi ente che tenti di attraversare il confine.

La presenza degli echi andrebbe a favore di una struttura dell'orizzonte: se il bordo esterno fosse più poroso della parte interna, un fotone che attraversa questo limite verrebbe intrappolato dal buco nero, mentre qualcun altro potrebbe sfuggire a seconda dell'angolo d'incidenza. In questo modo sarebbe possibile intrappolare parzialmente anche le onde gravitazionali che rimbalzerebbero avanti e indietro tra i bordi, lasciandone sfuggire di volta in volta qualcuna (i segnali di "eco", appunto).

Per provare il tutto, il team di Abedi ha sviluppato un semplice modello ripreso anche da un articolo su Nature. In questa semplificazione i buchi neri sono circondati da una struttura a specchi che riflette parzialmente le onde gravitazionali emesse dalla collisione, lasciandole "scappare" solo dopo una serie di riflessioni: applicando i dati raccolti dai tre esperimenti disponibili alle simulazioni si è visto come gli intervalli di tempo di "rilascio" dei segnali di eco corrispondono con precisione ai segnali reali.

Il modello proposto è ovviamente una semplificazione troppo drastica della realtà, ma non necessariamente troppo lontana concettualmente da questa. Serviranno ulteriori esperimenti ed osservazioni per capire bene quello che succede al confine di una delle strutture più estreme del nostro universo, ma questo studio potrebbe aver illuminato la retta via. Se gli ulteriori dati che verranno raccolti confermeranno la presenza dei segnali di "eco" bisognerà ammettere un errore della teoria della relatività e cercare di modellizzare una struttura per l'orizzonte degli eventi, magari un ibrido tra un firewell ed una fuzzball.

Questo studio, insomma, mette in dubbio una delle teorie cardine della fisica moderna, ma come ci insegna Popper "la scienza non posa su un solido strato di roccia. […] È come un edificio costruito su palafitte. Le palafitte vengono conficcate dall'alto, giù nella palude: ma non in una base naturale o "data"; e il fatto che desistiamo dai nostri tentativi di conficcare più a fondo le palafitte non significa che abbiamo trovato un terreno solido. Semplicemente, ci fermiamo quando siamo soddisfatti e riteniamo che almeno per il momento i sostegni siano abbastanza stabili da sorreggere la struttura."

In attesa di nuovi sostegni, rimaniamo in ascolto di qualche collisione tra buchi neri avvenuta miliardi di anni fa.