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Tecnologia

Come un pensionato ha mandato in tilt un intero videogioco

A quanto pare basta avere un sacco di tempo libero per portare un videogioco a tema esplorazioni al suo limite.
Immagine. The Flame in the Flood

Ha viaggiato 220 chilometri lungo il fiume ed è sopravvissuto 174 giorni prima di scoprire un bug nel gioco che ha arrestato la sua avventura in The Flame in The Flood. Lì, dove il fiume una volta continuava senza fine, confondendosi in un pattern sempre famigliare di acque placide che si avvolgevano in piccole rapide schiumose, ora c'era una brusca interruzione.

Non c'erano più terre selvagge da attraversare, non c'erano più ambienti industriali in cui intrufolarsi o risorse da saccheggiare. I limiti computazionali del fiume erano stati rivelati e crescevano in maniera esponenziale prima di collassare nella forma di un lago.

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Qualche giorno dopo, The Molasses Flood — lo studio dietro al gioco — ha detto a Stephen che possedeva uno dei punteggi più alti che avessero mai visto. Ma raggiungere questo tipo di traguardo non è stato facile. Nel corso del tempo si è sottoposto a partite che sono durate intere giornate, notti insonni in cui ripeteva gli scenari nella sua testa annesse, e un continuo conversare circa i segreti del gioco con sua moglie, Rachel, che lo aiutavo a districarsi nelle complessità del titolo. Arroccato all'ultimo piano di una casa vittoriana nel nord di Londra, Stephen sedeva in solitudine per ore, accompagnato soltanto dal suo fedele socio nel gioco, il cane Aesop. Alla sua destra, i suoi amati romanzi di fantascienza e il panorama del giardino che si estendeva dietro lo schermo del suo computer — Così, Stephen ha iniziato a finire nel vortice di The Flames in The Flood e poi in quello di Firewatch. A 63 anni, Stephen, in pensione da poco, si è riavvicinato a un passione che portava con sé dall'inizio degli anni Ottanta.

Sono seduto nella cucina con Stephen e suo moglie Rachel (i genitori della mia ragazza), nella loro nuova casa in un fienile riconvertito nel Kent rurale. Fuori, nuvole dense e grigie svolazzano basse mentre comincia a piovere. Questo istante mi ricorda alcuni momenti di The Flame In The Flood, anche se le nostre vite sono decisamente meno complicate di quelle che potremmo vivere nel gioco.

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La copertina e tutti gli screen sono gentilmente concessi da The Molasses Flood.

È in parte la rappresentazione delle bellezze naturali mostrata dal gioco ad aver tirato dentro Stephen. "La grafica non pretende di essere più di quello che è. Non hanno voluto fare gli splendidi. Sapevano di avere un comparto grafico solido ed efficace che rappresentava bene ciò che stava succedendo nel mondo di gioco — un vortice infinito di perturbazioni, inondazioni, piogge e tifoni. Se non fosse per il fatto che sei su una zattera e che stai cercando di salvarti, saresti decisamente felice all'idea di avere uno sfondo per il computer del genere e sedere lì per ore, a guardare soltanto i dettagli cambiare."

Ma i videogiochi non sono soltanto un capriccio estetico. Sono definiti dal principio di interazione, dalle azioni del giocatori che mutano gli eventi sullo schermo e che forniscono al gioco un traino compulsivo. The Flame in The Flood ha chiesto a Stephen di sopravvivere mettendolo contro gli elementi, gli animali selvaggi e il fiume di un'America post-società fittizia. La sfida risiede nel riuscire a evitare queste minacce, trovando comunque il modo di soddisfare i propri bisogni — cibo, acqua, temperatura corporea, cura delle ferite che potrebbe procurarsi durante il percorso. Sotto la spartana presentazione di un sistema di gioco votato alla sola sopravvivenza, si celano meccaniche complesse — sistemi vasti e interconnessi che inquadrano ogni azione e ogni decisione che Stephen ha preso lungo la sua strada. Stephen evidenzia rapidamente questo aspetto come il motivo per cui il gioco lo ha colpito così tanto. "Amo il fatto che sia basato sulla strategia. Devi imparare strada facendo, devi morire e fare un sacco di errori per migliorare."

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Stephen nel 2011. Tutte le foto utilizzate con autorizzazione.

Ho dovuto aspettare, però, che Stephen cominciasse a parlare di questi sistemi per capire davvero l'enormità di questo gioco. Prima di qualunque seria riflessione accademica su come abbia o non abbia superato una data sfida, si lancia nella descrizione degli eventi di gioco. Spiega come il verso dei corvi abbia allertato i lupi della sua presenza. O di quella volta che è riuscito ad uccidere tre lupi con un pezzo di carne, una trappola e un'intera faretra di frecce. O i suoi incontri con gli orsi grizzly, molto più veloci e scortesi di quanto pensasse. Mi ha anche parlato di quelle poche volte che ha scorto lo sfuggente lupo bianco, poco prima di vederlo svanire nella notte. Con le mani strette attorno ad una calda tazza di te — e un po' più salde dopo ogni racconto —, Stephen si trasforma in un saggio uomo d'avventura che discute le complessità dei suoi tentativi di sopravvivenza come se il mio fittizio futuro in un'America selvaggia dipendesse da lui. Di punto in bianco diventa un dispensatore di rituali arcani.

A partire dal simulacro biologico della fauna digitale, Stephen descrive questi sistemi interconnessi come se traessero ispirazione a piene mani dalle loro controparti reali. La sua ossessione per i fallimenti nel gioco, lo riflette. Anche quando smette di giocare, torna al desktop e spegne il computer, il gioco mantiene una sorta di attrazione gravitazionale su di lui ed è difficile distrarlo dal suo flusso di pensieri. "Sto steso per ore, sveglio, a pensare a cosa potrei aver sbagliato. Cosa mi è successo? Stavo passando in rassegna tutto ciò che ho fatto e perché l'ho fatto. Sono morto in una cascata dopo aver colpito tre rocce perché non mi sono fermato ad una tappa precedente, dove avrei potuto fare qualche riparazione alla zattera. Sono stato debole e ho pensato di poter continuare, solamente perché volevo recuperare un po' di cibo.

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Qualche mese dopo The Flame in The Flood, Stephen ha appena finito di giocare a Firewatch. Seduto alla stessa scrivania nel suo attico, mi manda una mail con oggetto "Watch Tower" (intende ovviamente Firewatch). Mi spiega come ami la mappa e la bussola, e di quanto il gioco gli ricordi Twin Peaks.

Screeshot da Firewatch, per gentile concessione di Campo Santo

L’ambientazione nella natura selvaggia americana di Firewatch è forse simile a quella di The Flame In The Flood, ma, per il resto, è una bestia diversa, alimentata da una narrativa complessa. Dove The Flame In the Flood lascia che Stephen controlli il proprio destino, Firewatch lo limita, con eventi che si sviluppano senza che il giocatore possa influenzarli. Chiedo a Stephen se lo trova convincente. Lui si sporge sul tavolo, il volto che si indurisce in un broncio. “Mi fa paura. Non volevo fidarmi di lei. Non volevo dirle cose che avrebbe potuto usare contro di me. Mi sono deliberatamente trattenuto dal parlarle di Julie, ma poi lei sembrava sapere qualcosa. Per cui credo di averle chiesto come lo avesse scoperto e lei ha detto, ‘oh, era tra i tuoi appunti.’ Ho cercato di tenere privata la mia vita, ma lei sapeva tutto lo stesso e non mi piaceva. Era sinistro.” Forse Stephen non era in controllo della situazione, ma il gioco ha prodotto comunque un effetto potente su di lui.

I giochi, però, non sono stati sempre un affare tanto solitario per Stephen. Se torniamo ai suoi 40 anni, lo incontriamo in un pub a Londra con un amico, nuvole di fumo nell’aria e il legno scuro del bar appiccicoso per il residuo di birra. È ora di pranzo e si stanno bevendo un paio di pinte mentre passano tra i cabinati incastrati nell’angolo della sala. Giocano a Space Invaders, Asteroids, Missile Command e Bomb Jack, mentre aspettano che la cena sia servita. Stephen si ricorda di quei tempi con trasporto e sorride, ma non dimentica la frustrazione terribile che li accompagnava — non riuscire mai a giocare secondo i suoi termini nel suo spazio.

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Stephen nel 1969.

Un Nintendo Commodore 64 ha risolto il problema, permettendo a Stephen di vivere momenti più intimi. The Dambusters, pubblicato nel 1984 per Commodore 64, ha fornito a Stephen una finestra non solo sul proprio passato, ma anche quello del padre. Carichiamo un video da 10 minuti del gioco. Mentre Stephen me lo spiega, si sente il motore ronzare con un crepitio distorto, monotono, il rat-a-tat-tat delle armi che trapassano lo schermo di bianco e di nero. Quando ci avviciniamo al vero bombardamento, l’intensità del rumore aumenta, finché un’esplosione non invade lo schermo. “L’ho fatto vedere a mio padre,” mi racconta Stephen una volta finito. “Non ci ha mai giocato, ma quando veniva a trovarmi gli dicevo ‘senti, devi vedere questo gioco’. Era un mitragliere posteriore nella guerra, non con quelli di Operazione Chastise, ma il gioco lo colpiva. Gli ricordava tutto quello che aveva passato.”

Stephen ha continuato a fare esperienza dei giochi tramite le lenti della famiglia negli anni Novanta. Il primo figlio che ha avuto con Rachel è nato nel 1988, seguito dall’arrivo di tre gemelle due anni dopo. Giocavano a giochi educativi, tipo Zoombinis, Where in the World is Carmen Sandiego?, e il primo Worms — il cui bizzarro senso dell’umorismo era molto amato dai bambini. Per quel gioco, Stephen ha allestito una LAN (una rete locale) che connetteva due computer in due diverse stanze, i bambini si sedevano davanti a uno, Stephen all’altro e la tensione aumentava a ogni mossa. Ben lontano dal duro periodo in cui ha giocato a The Flame In The Flood e Firewatch, i suoi occhi si fanno grandi e compare un ghigno, mentre mi racconta quanto si divertissero — tra le risate e i bisbiglii che ancora emanano da quella seconda stanza.

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C’è stato un gioco, però, che attirava Stephen “inesorabilmente, come una sirena.” Dopo aver messo i figli a letto, sgattaiolava nell’attico, facendo attenzione a non svegliare nessuno e si sedeva sulla sua poltrona di pelle. Prendeva le cuffie, le indossava e metteva a caricare Myst. “La bellezza di Myst erano le grafiche incredibili e i puzzle davvero stimolanti. Non c’era molto altro, tranne ottimi effetti sonori. Se finivi sul pendio di una montagna, sentivi il vento nelle orecchie. E potevi restare lì per l’eternità, solo a contemplare le immagini e ascoltare.” In quel momento, era come se si ritrovasse in un mondo diverso, un altro spazio, un luogo di fuga e, sì, una fantasia tutta sua, una che era possibile superare, battere e controllare.

Stephen e Rachel nel 1983.

Quando Stephen parla di The Flame In The Flood, si intravede quello stesso miscuglio di fantasia e controllo. “Mi fa pensare alle capacità che l’uomo moderno ha perduto. Quanti di noi, se ci ritrovassimo in quel tipo di situazione dove devi sopravvivere con quello che sai — su cosa coltivare e mangiare, su come intrappolare e uccidere un coniglio —, quanti di noi ce la farebbero? È l’immagine di un mondo diverso in cui potremmo trovarci a vivere un giorno.” Attraverso i sistemi del gioco, Stephen è riuscito a partecipare a questo mondo diverso, una fantasia radicata nel potenziale da incubo della realtà. Anche in Firewatch, è stato costretto ad affidarsi alla mappa e al compasso, uno scherzo per un esploratore esperto come lui, ma, allo stesso tempo, un dispositivo che aggravava il senso di isolamento del gioco. C’erano così tante opportunità per perdersi,” mi dice sorridendo. “Ed era una parte davvero, davvero meravigliosa del gioco.”

The Flame in the Flood.

Quando la nostra conversazione si avvicina alla fine e mentre la pioggia continua a scrosciare fuori, chiedo a Stephen com’era giocare a quei primi giochi. “Non dimenticare quanta strada era stata fatta in cose come la televisione. Non era passato così tanto, di certo l'ho vissuto da bambino, dove prima non c’era niente, poi è arrivata la tv in bianco e nero, infine quella a colori. La capacità di calcolo di allora, a confronto con ciò che abbiamo oggi, non era niente, ma forniva comunque quadri di pura illusione e sogno. “Penso che fosse tutta una questione di sognare che cosa sarebbe stato il futuro.” In quel momento, sono colpito dall’equivalenza dei nostri pensieri. Come Stephen negli anni Ottanta, sono attirato dal potenziale dei videogiochi. Ma dove per Stephen il potenziale era un albero da 4x6 pixel, ora ci vengono offerti interi mondi — città digitali vincolate da facsimili delle nostre ansie sociali e dalle oscillazioni algoritmiche di ecosistemi a codice. Come Myst per Stephen, il loro potenziale è una sirena che ci attira inesorabilmente. Inseguirla potrebbe rivelarsi la più grande ossessione della storia.

Questo articolo è apparso originariamente su Waypoint US.