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Cosa vuol dire essere infermiera in un reparto psichiatrico

A parte il lavoro burocratico non ci sono mai due notti uguali. Tutto è imprevedibile, ci sono spesso emergenze. E a volte capita che io, a 23 anni e con alle spalle un solo anno di lavoro, sia la persona più anziana e con più esperienza di tutto il...

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Lavoro come infermiera in un reparto di psichiatria. Ogni tanto mi capita di fare "la notte", turni da circa 12 ore che vanno dalle 7.30 di sera alle 7.45 del mattino dopo. A volte inizio più tardi, a volte invece devo arrivare prima: dipende da quanto è complesso il passaggio di consegne tra un turno e l'altro.

Inizio con il primo giro di controllo. In questo caso faccio le classiche cose che fanno tutti gli infermieri in qualsiasi reparto: parlo con i pazienti, capisco come stanno, controllo come procedono le loro cure e aggiorno le cartelle. Ci possono essere anche casi più complicati in cui il paziente deve essere tenuto costantemente sotto osservazione o addirittura supervisionato in ogni suo movimento. È una specie di suicide watch, anche se noi non lo chiamiamo mai così.

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L'aggiornamento delle cartelle e la compilazione delle varie scartoffie richiede più tempo di quanto si possa pensare. A ogni infermiere viene affidato un numero di pazienti che ricadono sotto la sua responsabilità, insieme ai relativi piani di assistenza. La cura dei pazienti risente necessariamente di queste incombenze: non posso occuparmene concretamente se sono troppo impegnata a scrivere del loro stato.

A parte il lavoro burocratico non ci sono mai due notti uguali. Tutto è imprevedibile e ci sono spesso emergenze. L'altra notte ad esempio una paziente mi ha messo un coltello alla gola. Era uno di quei coltelli che si usano per mangiare, quindi niente di eccessivamente pericoloso, ma si sa, in quelle situazioni ci si preoccupa lo stesso. Quando succedono cose del genere bisogna reagire in fretta. Sono riuscita a toglierle il coltello di mano e a farle prendere le medicine. Non c'è stato bisogno di adottare misure particolari, perché in quel momento c'erano altre persone pronte ad aiutarmi. Ma le cose non vanno sempre bene.

La verità è che gli ospedali pubblici sono sempre a corto di personale per i turni di notte. E questo vale anche per i reparti psichiatrici. Nel caso dell'incidente del coltello sono stata fortunata: di solito di notte ci sono solo tre professionisti a reparto. A volte capita che io, a 23 anni e con alle spalle un solo anno di lavoro, sia la persona più anziana e con più esperienza di tutto il piano. Quest'estate si vociferava che sarebbe stata introdotta una nuova figura nello staff, una persona incaricata proprio di fronteggiare ai possibili incidenti notturni, ma non è ancora stato fatto.

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Ovviamente siamo stati formati anche per gestire autonomamente tutti questi imprevisti. Da un punto di vista legale siamo liberi di fare tutto il necessario—nei limiti della ragione—per difenderci. Se ad esempio un paziente passa alle mani non dobbiamo certo essere delicati. Chiaramente nessuno di noi vuole fare del male ai pazienti in cura, anzi. Ma ci sono situazioni che richiedono provvedimenti drastici, proprio per il bene dei pazienti.

A volte, il livello di minaccia rappresentato dei pazienti è così alto da suscitare più di una preoccupazione. Qualche settimana fa, ad esempio, un infermiere è rimasto chiuso a chiave in una stanza: un paziente minacciava di rovesciargli addosso dell'acqua bollente. Era uno dei colleghi che lavora qui da più tempo, e la persona a cui guardo come esempio—è sempre molto calmo e lucido, perciò quando è preoccupato so che la situazione è brutta.

Le minacce non sono solo fisiche. Quelle verbali si verificano spesso e possono essere molto pesanti. Lavoro in un ospedale del centro di Londra che fornisce assistenza a una comunità culturalmente molto variegata. Di conseguenza gli episodi di razzismo sono frequenti, ma non per questo meno scioccanti. Anche se i nostri pazienti non stanno bene e non sanno quello che dicono le parole restano brutali.

Alcuni insulti possono anche essere divertenti. L'altro giorno una paziente di origini cinesi ha detto a un infermiere che gli avrebbe tagliato le palle e le avrebbe trasformate in un chop suey. Io mi sono messa ridere, e anche il mio collega ha riso. Probabilmente quella ragazza sarebbe stata capace di strappargli davvero le palle, ma ogni tanto bisogna ridere. Bisogna cercare di convivere con queste situazioni.

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Nonostante tutto, riusciamo a cavarcela. Il settore della salute mentale e il complesso livello di cure che richiede resta ancora oggi nascosto o incompreso. Il nostro è un approccio olistico, unico in Inghilterra, che tende a rielaborare una cura appositamente pensata in base ai bisogni del soggetto piuttosto che limitarsi ad attutire semplicemente i sintomi di una malattia.

È indubbio che gli ospedali pubblici siano spesso delle strutture precarie. Ma bisogna ricordare che 50 anni fa le cose erano ancora peggio. Certo, probabilmente ci sarebbe bisogno di più personale. Ma le cure non sono solo una questione di quantità; è la qualità a contare. Non basta sedare o far stare tranquilli i pazienti. Lavoriamo con loro. La terapia passa anche attraverso la costruzione di un rapporto, di una relazione.

Ma la situazione è complicata. I problemi che dobbiamo affrontare—cambi di potere ai vertici, tagli ai fondi, riorganizzazione generale—hanno un grande impatto sul modo in cui vengono recepite e trattate le malattie mentali. Di recente abbiamo ricoverato d'urgenza un paziente e l'abbiamo dovuto sistemare nella sala d'attesa. Era l'unica opzione. Quando succedono queste cose cerchiamo di fare del nostro meglio per tenere sotto controllo la situazione fino al mattino, quando arrivano i supporti.

I pazienti che vengono ricoverati d'urgenza sono persone molto malate, che hanno bisogno di cure immediate, come chi si presenta al pronto soccorso con un'emorragia inarrestabile. Un malato mentale può essere colto da un attacco psicotico e diventare così ingestibile per gli infermieri che lavorano in un reparto già pieno di altri pazienti.

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Un'altra questione ineludibile è quella relativa al ruolo della polizia in occasione dei ricoveri dei pazienti psichiatrici, perché le celle dentro cui vengono messi prima di essere portati in ospedale non sono l'ambiente migliore. Nel nostro reparto la maggior parte dei ricoveri avviene attraverso l'intervento del pronto soccorso, ma ci sono casi in cui invece interviene la polizia. Essere tenuti in una cella di detenzione è brutto per chiunque, ma per chi è veramente vulnerabile da un punto di vista psichico può essere un'esperienza terrificante. Può addirittura avere un impatto negativo sulla possibilità di recupero del paziente. E purtroppo va anche detto che, intenzionalmente o meno, le persone mentalmente instabili vengono spesso maltrattate.

Mi è capitato più di una volta di dover aiutare i pazienti a sporgere denuncia. Come può la polizia sapere come comportarsi? Perfino i miei amici non hanno ancora capito fino in fondo in cosa consiste il mio lavoro. La gente mi guarda attonita quando spiego che sul lavoro mi vesto il più casual possibile perché non voglio in alcun modo trasmettere un'impressione autoritaria ai miei pazienti – sono ancora lì ad immaginarmi con il camice bianco.

Questa iniezione di fondi da parte del governo inglese nelle casse delle emergenze non arriverà presto. Ma il livello di cura e attenzione che siamo riusciti faticosamente a costruire fino a oggi potrebbe trovarsi in serio pericolo per via della mancanza di risorse adeguate.

Più persone abbiamo che lavorano sul campo, più tempo possiamo dedicare ai nostri pazienti. Mi è stato detto che il mantenimento di una persona mentalmente instabile in ospedale costa circa 1.500 euro a notte, ma se non siamo in grado di offrire un'assistenza adeguata quando è necessaria, il paziente avrà delle ricadute e quindi dovrà essere ricoverato di nuovo e tutto questo costerà di più di quanto potrebbero costare gli stipendi di due nuovi infermieri. In media veniamo pagati poco più di 31.000 euro l'anno.

Il nome dell'autrice è stato cambiato nel rispetto della sua professione.

Come raccontato a Josh Barrie