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Tecnologia

La rivoluzione del proletariato digitale non ci sarà mai

Abbiamo chiesto a un rappresentante sindacale se i proletari digitali avranno mai la loro rivoluzione.
Diego Rivera. Immagine: Wikipedia.

Quando si parla di proletariato, l'associazione mentale più immediata ci porta a volare sulle ali dello spettro che si aggira sull'Europa: lo spettro del Comunismo. Il proletario è l'operaio alienato che non vede mai il sole, che non possiede i mezzi di produzione, che con il suo lavoro crea il plusvalore grazie al quale il Capitalista si arricchisce e che ha un enorme bisogno di prendere coscienza di sé per instaurare finalmente una dittatura—la dittatura del proletariato.

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Al di là delle ideologie otto-novecentesche, che è meglio lasciare dentro la teca nostalgica delle assemblee d'istituto, la parola proletario ha una storia millenaria e un significato etimologico chiaro: il proletario è colui che possiede esclusivamente la sua prole. Nell'antica Roma i proletari costituivano la classe sociale più infima, formata da contadini talmente poveri che non potevano offrire alla patria nient'altro che i propri figli da mandare in guerra. Con la Rivoluzione industriale, poi, i contadini si sono trasformati in operai. Altrettanto poveri e infimi, altrettanto muniti di figli da sacrificare al Capitalismo.

Nell'era del silicio, cioè oggi, i proletari sono diventati digitali. Non possiedono i mezzi di produzione (i software?), creano plusvalore nelle aziende in cui lavorano (che li pagano sempre il meno possibile) ma, colpo di scena, non hanno figli perché hanno paura di non poterli mantenere—nell'Ottocento si poteva anche fare, ma oggi i pannolini costano. Un'altra differenza fondamentale rispetto al proletariato storico è che, almeno sulla carta, i proletari digitali hanno avuto la possibilità di studiare.

La polemica sull'identità e l'esistenza stessa dei proletari digitali è in giro ormai da un paio di anni, e viene rimessa in ballo dai media ogni volta che una statistica lancia l'allarme sullo stato occupazionale dei giovani italiani impiegati nel digitale. Nel 2014 aveva avuto particolare risonanza un'inchiesta de L'Espresso che realizzava, con decine di testimonianze, un "mosaico dei mestieri che ogni giorno si trovano a fare i proletari digitali e che pochi riconoscono". A maggio di quest'anno, proprio nel giorno della festa dei lavoratori, tra le pagine cartacee de La Repubblica è apparso un articolo di Roberto Mania e Filippo Santelli in cui si parla ancora una volta delle tristi condizioni lavorative dei 500 mila operai online italiani.

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Su @repubblicait Proletari digitali nelle fabbriche virtuali di app, siti e social network. pic.twitter.com/InpJVbqJaz
— G. (@ekt0rp) 1 maggio 2016

Ora, tutti abbiamo un amico grafico che lavora per pochi soldi, un conoscente sviluppatore che programma giorno e notte quando i tempi stringono, e magari siamo a nostra volta social media manager sottopagati da un'azienda di yogurt magro. Quindi dilungarsi sulle condizioni di precarietà/flex-insecurity dei giovani italiani è inutile. Una problematica interessante che emerge in entrambi gli articoli, però, è la totale assenza di quell'istituzione un po' vintage e quasi del tutto sconosciuta a noi giovani: il sindacato.

Per capire se c'è una via d'uscita da questa situazione ho contattato Mario Grasso, coordinatore del Sindacato Networkers, cioè dell'unica piattaforma online in Italia che si occupa della rappresentanza sindacale dei lavoratori dell'ICT (Information and Communication Technology).

"Non è detto che il lavoro sul web equivalga al precariato," mi ha spiegato Mario Grasso al telefono. "Nel marzo 2015 è stato firmato un contratto nazionale, il primo in Italia, che inquadra i professionisti dell'ICT secondo lo standard europeo ECF (European e-Competence Framework)—Si tratta di un contratto stipulato tra le parti, pensato per soddisfare le necessità di imprese, organizzazioni pubbliche e private, e lavoratori. Vengono proposti 23 profili diversi in cui rientrano bene o male tutti coloro che hanno a che fare con il web per lavoro. Che si tratti di sviluppatori, sistemisti, o persone che creano contenuti—videomaker, grafici, blogger—esiste un livello di inquadramento contemplato nel contratto."

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Di fatto, però, molti datori di lavoro non sembrano applicarlo. Probabilmente si tratta di un contratto troppo vincolante oppure che implica il pagamento di stipendi base particolarmente alti. In questa fase di crisi sistemica, a quanto pare, le imprese non possono permettersi di investire troppo sulle risorse umane. "In un'ottica europea le retribuzioni italiane contemplate nel contratto nazionale non sono particolarmente alte. Anzi, c'è un bel gap tra il trend italiano e quello di altri paesi europei," continua Grasso. "Uno sviluppatore, per esempio, parte da un inquadramento minimo del quarto livello—1.400 netti al mese circa. Per il digital media specialist, categoria in cui rientra anche chi si occupa di contenuti grafici, video e testo, è più o meno lo stesso."

"Non è detto che il lavoro sul web equivalga al precariato"

Quando gli chiedo se questo contratto nazionale, stipulato proprio nel 2015, ha qualcosa a che fare con il Jobs Act mi risponde di no. "Il contratto nazionale è totalmente indipendente dal Jobs Act, perché quest'ultimo è stato emanato dal governo, mentre il nostro è stato stipulato tra le parti. Il datore di lavoro può scegliere quale contratto applicare, ovviamente, in base alla sua convenienza. Al momento il Jobs Act permette degli sgravi fiscali alle aziende e quindi, in un certo senso, viene prediletto."

Questo è comprensibile. Ma il fatto stesso che i datori di lavoro possano scegliere che contratto applicare ai dipendenti, e quanto retribuirli, induce a pensare che questa classe operaia digitale non vedrà mai un vero riscatto. Insomma, che fine ha fatto il sindacato che rivendica i diritti dei lavoratori? "Nelle aziende con meno di 15 dipendenti non è contemplata la presenza di un rappresentante sindacale. Sopra i 15, molto dipende anche dai lavoratori," mi spiega. "In un certo senso è vero che facciamo difficoltà ad arrivare ai giovani, ma è anche vero che loro non si rivolgono a noi."

Agli occhi di chi è nato dopo gli anni Ottanta, i sindacati sono quelli che portano avanti la retorica dell'operaio—Forse è anche a causa di questo anacronismo che sembrano non esistere. "Il fatto che il lavoratore sia identificato con il metalmeccanico è un problema che ci portiamo dietro dal dopoguerra. Il mondo del lavoro ormai è cambiato, anche in Italia. Due anni fa abbiamo fatto una ricerca in questo senso, e abbiamo visto che in Italia è il terziario è il settore preponderante. A qualcuno fa comodo questa retorica antiquata, probabilmente, perché non affronta la realtà."

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