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La verità è che Quota 100 è pensata per i vecchi, e noi ne pagheremo le conseguenze

Tanto basta mandare a casa i lavoratori più anziani per creare magicamente nuovi posti di lavori per i più giovani, no?
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La conferenza stampa del 17 gennaio 2019 in cui il governo ha presentato il decreto per "reddito di cittadinanza" e "quota 100". Grab via Facebook.

La settimana scorsa, tra slide e post trionfali su Facebook, il consiglio dei ministri ha approvato il “decretone” su “reddito di cittadinanza”—che non è un vero reddito di cittadinanza—e “quota 100.”

La riforma delle pensioni voluta dal governo gialloverde è un provvedimento che permetterà di andare in pensione anticipatamente a chi ha raggiunto i 62 anni di età e detiene un’anzianità contributiva minima di 38 anni. La misura entrerà in vigore dal primo aprile 2019, durerà tre anni, e ancora non si sa di preciso quanto sarà larga la platea degli aventi diritto. Salvini, in conferenza stampa, ha parlato di un milione di persone.

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Ovviamente per andare prima in pensione bisogna rinunciare a una piccola parte di contributi; in questi giorni in molti stanno provando a calcolare quanti soldi mancherebbero nell’assegno mensile in caso di adesione a quota 100: si parla di somme di denaro che varierebbero tra i 100 e i 300 euro. All’inizio della conferenza stampa che ha seguito l’approvazione del decreto legge il ministro dell’Interno ha voluto dedicare “questa decina di paginette alla signora Fornero e al signor Monti, che ancora non se ne fanno una ragione.”

Messa giù così, la misura non potrebbe interessare di meno chi ha tra i 20 e i 40 anni. Dopotutto parliamo di pensioni, ossia di una cosa che già ora difficilmente vedremo. Eppure, al di là della propaganda governativa, sarebbe meglio rendersi conto di una cosa: questo decreto peserà principalmente sulle spalle di giovani (e donne).

Cioè proprio su di noi, che saremo costretti a ripagare le scelte di partiti che hanno deciso di stringere la presa su un elettorato di anziani—come del resto si poteva capire benissimo in campagna elettorale—piuttosto che sulle nuove generazioni.

A sollevare il problema della quota 100 tra i giovani è stata, tra gli altri, la deputata del Partito Democratico Giuditta Pini, che con un post su Facebook ha spiegato che sarà proprio quella fascia anagrafica ad anticipare i soldi per il sussidio del "reddito di cittadinanza" e per il pensionamento anticipato introdotto da quota 100. Gli stessi giovani per cui l’attuale sistema pensionistico, in combinato disposto con un mercato del lavoro fuori controllo, non permetterà di ottenere la pensione prima dei settant’anni, con la magra consolazione di un assegno che ammonterà a poche centinaia di euro mensili.

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Partiamo dalle donne: non solo non è stato previsto nulla nel decreto; ma la legge di bilancio 2019 ha prorogato la cosiddetta “opzione donna,” ovvero la possibilità di andare in pensione anticipatamente per le lavoratrici del settore pubblico e privato—a patto, però, di prendere un assegno che sarà calcolato esclusivamente sul sistema contributivo. Insomma, in Italia una donna che vuole andare in pensione prima del tempo deve rinunciare a una parte cospicua del proprio reddito.

Per capirci di più sul resto, ho invece sentito al telefono il segretario confederale della Cgil Roberto Ghiselli. “Questa non è una manovra pensata per i giovani,” mi racconta. “Le nuove generazioni maturano delle situazioni di discontinuità lavorativa, entrano in ritardo nel mercato del lavoro e spesso svolgono mansioni con una bassa retribuzione, perciò non arriveranno mai a maturare i requisiti di quota 100. E ovviamente se non raggiungi i 38 anni di contributi, rimane invariata la legge Fornero.”

Naturalmente, per ora “quota 100” è un esperimento che durerà tre anni; l’idea del governo è però quello di fare delle proroghe, e Salvini addirittura parla già di "quota 41." La direzione, mi dice Ghiselli, è quella di “creare sempre più pensionati, mentre il vero problema rimangono i giovani che andranno in pensione dopo i settant'anni e con degli assegni molto più bassi rispetto ai loro genitori. Questa dovrebbe essere una priorità per il governo, ma le cose non si stanno muovendo in quella direzione.”

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L’idea di fondo del governo, infatti, è che basti mandare a casa i lavoratori più anziani per creare magicamente nuovi posti di lavori per i più giovani. Tuttavia, non ci vuole un economista per capire che questa equazione è a dir poco ottimistica. La storia, poi, insegna: già a partire dagli anni Settanta alcuni paesi occidentali provarono a ridurre l’età di pensionamento per aumentare l’occupazione giovanile. L’unico effetto ottenuto è stato quello di aumentare la spesa pensionistica in modo incontrollato.

La storia del giovane assunto per ogni pensionato, insomma, è solo l’ennesima sparata smentita dalla realtà dei fatti. Secondo Lavoce.info sarebbe più corretto dire che, nella migliore delle ipotesi, il rapporto tra pensionati e nuovi assunti si attesta sul 5 a 1, non certo sull’1 a 1.

Più che a fare andare le persone in pensione prima del tempo, il governo dovrebbe pensare a riformare l’intero sistema per venire incontro alle istanze di un mercato del lavoro sempre più debole e frammentato. Ghiselli e la Cgil propongono una “pensione contributiva di garanzia,” con cui “considerare dal punto di vista previdenziale” tutte le “carriere discontinue, i periodi in cui non si ha lavoro, gli anni di lavoro part time, il precariato o le interruzioni del lavoro per gravidanze o per altre necessità, e tutte queste situazioni di debolezza” che purtroppo—come sappiamo fin troppo bene—sono la norma.

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In questo modo, mi spiega, “anche una persona che ha avuto una carriera discontinua avrà una pensione dignitosa che non sarà tarata sul lavoro effettivo, ma verrà aumentata grazie al gettito fiscale per coprire i buchi contributivi del lavoro part time e del precariato.”

Ad oggi, però, la realtà è quella di “quota 100.” E molti giovani, facendo qualche calcolo, si sono accorti che andranno in pensione da molto vecchi, mentre i loro assegni saranno assai limitati. Ecco perché alcuni di loro si affidano ai famigerati fondi pensione. In questi casi non si sa mai come muoversi, c’è molta disinformazione e la fregatura aspetta sempre dietro l’angolo.

Ho così chiesto a Ghiselli cosa potremmo fare. “Se vogliono integrare le proprie future pensioni in un mercato del lavoro così debole,” mi dice, “il mio consiglio è quello di affidarsi ai fondi pensione chiusi, che sono una sicurezza. Questi fondi sono legati al contratto collettivo di lavoro e a ogni settore spetta il suo fondo. Altro discorso va fatto invece per quelli aperti, destinati sia a lavoratori dipendenti che ad autonomi: può essere un rischio investire soldi in quel modo.”

Agli occhi di un trentenne, insomma, il nuovo decreto legge del governo gialloverde non ha davvero nulla di attraente: nessuno stimolo per il mercato del lavoro; nessuna riforma radicale del sistema pensionistico che tenga conto della realtà del sistema lavorativo italiano; solo tanta, tanta propaganda. E siamo solo all’inizio dell’anno.

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