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Tecnologia

I robot faranno fuori metà dei posti di lavoro

Il nostro futuro non è roseo, ma c'è ancora qualcosa che possiamo fare per non restare schiacciati.
Un magnate delle tecnologie passa in rassegna la sua forza lavoro robot. Immagine: Wikimedia.

Ci sono due statistiche estremamente importanti che riguardano il futuro del lavoro come lo conosciamo che, di recente, hanno suscitato clamore:

1 . 85 persone controllano da sole una ricchezza pari a quella nelle mani della metà più povera del mondo.

2 . Il 47 per cento dei posti di lavoro attualmente esistenti al mondo potrebbe essere automatizzato nel corso dei prossimi due decenni.

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Insieme, queste due statistiche ritraggono un futuro distopico che rischia di avverarsi in fretta. Quanto più cresce il numero di macchine automatizzate (robot, se vi piace) che generano profitti e incrementano l'efficienza delle imprese, tanto più numerosi saranno i posti di lavoro in esubero—mentre il reddito si accumulerà sempre più in alto nella scala aziendale. Il gap di disuguaglianza si allargherà man mano che il lavoro crescerà in modo limitato—ci sono molti posti nel settore dei servizi che possono essere già sostituiti, proprio come accade per la produzione—e l'ultima ondata di automazione lascerà a gambe all'aria non solo operai, ma anche impiegati, addetti al telemarketing e agenti immobiliari.

Almeno, così sostiene uno studio di Oxford del 2013, ripreso dalla storia di copertina dell'Economist la scorsa settimana. La ricerca ha tentato di mettere a sistema i posti di lavoro che erano suscettibili di automazione, e, sorpresa, ne è saltato fuori un numero enorme. I lavori creativi e qualificati condotti dagli esseri umani erano i più sicuri—pensate a preti, editor e dentisti—ma praticamente qualsiasi compito routinario si trova ormai a portata di automazione. Macchinisti, dattilografi e commessi potrebbero scomparire per sempre.

E, come accade storicamente, i capitalisti mietono tutti i benefici. The Economist spiega:

La prosperità scatenata dalla rivoluzione digitale è finita soprattutto nelle tasche di chi controlla i capitali e dei lavoratori più qualificati. Negli ultimi tre decenni, la condivisione dei proventi della produzione si è ridotta a livello globale dal 64 al 59 percento. Nel frattempo, la quota di reddito che spetta al primo un percento degli statunitensi è passata da circa il nove percento nel 1970 al 22 percento di oggi. La disoccupazione è a livelli allarmanti in gran parte del mondo sviluppato, e non solo per ragioni congiunturali. Nel 2000, il 65 percento degli americani in età lavorativa aveva un impiego: da allora, la percentuale è scesa, sia negli anni buoni che cattivi, al livello attuale del 59 percento.

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Per giunta, tendenze del genere non si verificano esclusivamente negli Stati Uniti. Il secondo dato che ho riportato in apertura proviene da un rapporto di Oxfam intitolato Working for the Few. È stato lanciato in tandem con l'inizio del World Economic Forum di Davos, nel tentativo di convincere i partecipanti multimiliardari a considerare per un attimo quanto pesante fosse la loro ricchezza. Il report dice che "le 85 persone più ricche del mondo hanno tra le mani una ricchezza combinata pari a 1.000 miliardi di sterline, tanto quanto posseduto dai 3,5 miliardi di persone povere nel mondo.”

La tendenza, naturalmente, va oltre la condizione della cerchia ristretta dei magnati più potenti al mondo: "La ricchezza dell'un percento delle persone più ricche del pianeta ammonta a 110.000 miliardi di dollari, pari a 65 volte tanto quella della metà più povera del genere umano." Sono sempre le stesse persone che nelle loro aziende installano robot, i quali avranno l'effetto netto di concentrare sempre di più i capitali nelle mani dei loro padroni.

Come osserva l'articolo dell'Economist, di solito si instaura un ciclo dirompente quando le nuove tecnologie soppiantano quelle vecchie e sostituiscono i posti di lavoro. Ma, questa volta, il ciclo è unilaterale—finora, il numero di posti di lavoro creati nella nuova economia dell'informazione è molto inferiore rispetto a quello alimentato dalla vecchia produzione di base: l'anno scorso, Google, Apple, Amazon e Facebook valevano insieme oltre un trilione di dollari, ma impiegavano solo 150.000 persone.

All'orizzonte si profila una prospettiva raggelante: nel nostro mondo globalizzato, tecnologicamente avanzato e ineguale rischiamo di diventare una massa di cyber-braccianti che tendono (o vagabondano, più probabilmente) verso le terre feudali dei ricchi che possiedono le macchine. Oxfam prevede lotte di classe e conflitti sociali in arrivo e non è difficile capire perché—per garantire al 99 percento del domani i benefici dalla tecnologia galoppante, saremo costretti a spingere verso adeguamenti delle politiche che si adattino al nostro mondo meccanizzato. Una radicale redistribuzione del reddito è probabilmente alle porte, anche nel caso fosse il minimo garantito; ma queste sono tutte idee che ai grandi magnati, abituati a raccogliere profitti fuori misura, suoneranno tutt'altro che abbracciabili.

Eppure, la nostra agricoltura, energia e tecnologia sono già sufficienti per ricalibrare i profili di reddito e la distribuzione della ricchezza nel mondo per renderli più equi. Mentre i ricchi e i loro robot inizieranno a fare piazza pulita dei posti di lavoro, noi avremo un disperato bisogno di innovazione sociale. Molto più di qualsiasi altra scoperta tecnologica.