La lavanderia sbagliata
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A12N4: Il decimo annuale di narrativa

La lavanderia sbagliata

Il primo estratto dal nostro numero annuale dedicato alla narrativa.

Questo racconto è estratto dal nostro numero annuale dedicato alla narrativa. 

Il giorno in cui sono entrata nella lavanderia sbagliata la mia vita era incagliata in una zona morta e quando avevo qualcosa da sbrigare nel mio quartiere la sbrigavo sempre pensando ad altro. A cosa l'ho dimenticato, ma bisognava che fossero problemi senza soluzione, di quelli che ti si annidano nei polmoni o li schiacciano con la pesantezza di un ferro da stiro, bisognava che sembrassero sempre urgentissimi e insieme irresolubili, come quando preghi che ricrescano subito i capelli o hai l'ossessione di avere o non avere fatto quella precisa scelta anni prima. Quella: una qualsiasi. Purché il fantasma non ti lasci andare mai.

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Quando la porta si aprì provai fastidio, la bengalese in un bosco di grucce rivestite di plastica portava il foulard a incorniciare un viso trascurato, mi salutò con voce giovane e invece mostrava cento anni, e in ogni caso non era lì che avevo portato la mia vecchia camicia gialla. Eppure, la strada era quella e l'isolato pure.

"Scusi, ma non c'era un'altra lavanderia qui?"

Pensai che persino lei, con quel sorriso vacuo e ingiustificato, non meritava una domanda tanto stupida.

"Due porte accanto."

Doveva essere uno scherzo: non c'era necessità di far esistere due lavanderie a due portoni di distanza, neanche fossimo in un quartiere di ricchi. Oppure la nuova lavanderia aveva aperto da poco, per fare concorrenza a quella italiana. Uscii e pochi passi dopo entrai nella lavanderia giusta, che tanto giusta non era anzi era nuova anche per me, dopo che quella più vicina a casa aveva chiuso per un lutto improvviso. Ma desideravo provare conforto, e per un minuto ci riuscii.

La sessantenne giovanile, con i capelli tinti di castano e sul naso cenni di lentiggini, mi accolse con allegria, la camicia non era ancora pronta, le dispiaceva proprio tanto, non è che mi stava facendo un danno, non è che avevo un appuntamento, sì, ecco, un appuntamento di quelli che sappiamo noi? Strinsi i pugni dentro il cappotto, più di tutto non volevo che facesse battute inutili, volevo che fosse lieve e accogliente, doveva per forza starmi simpatica. C'era un uomo prima di me, un uomo con un cappello in mano e lo sguardo basso e ferito, aspettava una giacca o un completo elegante, e portava la fede. Risposi che sarei tornata l'indomani mattina, mi serviva al più tardi entro mezzogiorno perché dovevo partire. Rise garrula e imperterrita, e continuò a deludermi facendo allusioni sulla mia vita, ignara del fatto che io, come tutte le persone che non hanno signoria su nulla se non sui propri dettagli, avrei deragliato il mio rancore senza oggetto contro la sua arbitraria invadenza. Rise garrula e imperterrita perché voleva civettare con l'uomo con il cappello, e sapevo che non c'era niente di male, ma lo stesso non tolleravo la volgarità di quel momento. L'uomo era imbarazzato e guardava da un'altra parte, e seppi che anche lui non avrebbe voluto che ci fossi io a far da mezzo. Decisi che non sarei mai più entrata nella lavanderia della signora italiana. Dalla prossima volta avrei bussato due porte prima.

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"Nilima, perché ridi?"

Nilima ride sempre con gran rumore. Socchiude gli occhi e ride. Nel retro della lavanderia dorme suo figlio quando non va a scuola. Non l'ho mai visto giocare, a volte protesta o la chiama. Nilima ride e non smette di parlare con me. Mette le P al posto delle S, delle B, e di altre consonanti. È arrivata in Italia sei anni fa, subito dopo essersi sposata. Il bambino ha quattro anni.

"Oggi ho telefonato a mia sorella in Canada, ha tanti appartamenti e ha aperto tanti negozi di vestiti, sì: lei è ricca."

Mi chiedo cosa ci sia da ridere, appoggio le braccia sul bancone e mi strapazzo la testa simulando sconforto.

"Beata lei. Non ci può prestare dei soldi?"

Da quando porto i miei vestiti a Nilima mi è preso così, di fare battute stupide. All'inizio lo facevo per riempire i vuoti lasciati dalla sua lentezza, perché ci mette un'infinità a fare tutto: battere sui tasti della cassa, scrivere il mio cognome, spillare i capi, darmi lo scontrino. Ho visto lo stesso esasperato senso del tempo in certi chioschi del Sudamerica e nelle botteghe delle isole Eolie; è un tempo che ingigantisce i dettagli e spazza via la morte, costringe a un continuo presente, svela quanto è misera la nostra fretta. Quel tempo dice che la vita è lì: nell'impazienza e nella noia. Non c'è niente di più puro di questa rivelazione, per ciò ogni settimana ho un cappotto o un piumone pronto per la lavanderia. Prima di Nilima non ricordo in che modo me la cavavo nel pulire quella roba.

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Nilima sbaglia il mio cognome e lo riscrive perché non ha azzeccato le doppie; mi convinco che sia un problema spaventoso, enorme. Ha ragione lei: non potrei mai ritirare il mio cappotto se non ho le consonanti al posto giusto. Certo che no.

Il bambino strilla, Nilima ride ancora. Dice che la prossima settimana chiamerà di nuovo sua sorella in Canada, dice che sta per aprire un altro negozio di vestiti, ripete che la sorella e il marito hanno molte case, e alcune le danno in affitto. A lei invece sono toccate l'Italia, una casa soltanto e neppure sua, un lavoro mediocre e la brutta copia dei quartieri cosiddetti multietnici di tutte le capitali europee. Così penso, e mi dico che dovrei aiutarla anche se non so bene a fare cosa.

Nilima vive a poche traverse di distanza ma vorrebbe un altro appartamento, più vicino alla lavanderia. Ma sei già vicinissima, obietto. Mi spiega che invece portare il bambino a scuola e poi tornare al lavoro è un viaggio. Provo a immaginare di percorrere tutta la via con un quattrenne al seguito, lasciarlo all'asilo, tornare a riprenderlo. Di colpo vedo il quartiere con gli occhi di Nilima e i pochi metri si moltiplicano in tantissimi chilometri.

Il marito parla romano. La prima volta in cui entro in lavanderia e me lo trovo davanti il primo impulso è tornare indietro. Ha la faccia furba, e conferma quello che pensavo: non è adatto a Nilima. La fa soffrire perché non prende per lei una casa nuova. Non le dà un altro figlio. Non trascorre il tempo con lei. Soprattutto, ha una cadenza che mi irrita: è arrivato a Roma con la famiglia all'età di otto anni, e ha preso le peggiori abitudini della città, la spocchia e la spiritosaggine forzata. Dietro l'aria da ragazzo leggero ha assorbito i conservatorismi di entrambe le culture. Perché non iscrive Nilima a un corso di italiano? Perché la tiene chiusa nella lavanderia che ha preso in gestione? Perché non fa niente per renderla felice? Grazie alla doppia cittadinanza detiene nei suoi confronti un potere dispotico. Anche se la moglie passa molto tempo al lavoro da sola, alla resa dei conti è lui a farle da interfaccia con il mondo.

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"Sono un'amica di Nilima," dico apposta per farmi guardare con sospetto.

"Ah, bene."

"Devo ritirare due vestiti. Uno è quello," indico un abito in seta grigia su cui sono disegnati degli alberi.

"L'alone non è passato," allarga le braccia.

Ho una gran voglia di litigare. Protesto: quante volte l'ha lavato? Con cosa? Ma io ho già pagato, e ora?

"Si paga il lavoro, non il risultato."

Lo so che ha ragione. Vado via furibonda e non faccio nulla per dissimulare la mia scontentezza.

Per una settimana non vado in lavanderia. Non vado neanche la settimana dopo. La terza settimana esco con un'amica, andiamo a bere in un locale dove c'è la stanza fumatori, e per farla contenta mi ci siedo anch'io. Quando torno a casa mi puzza tutto, anche l'interno degli stivaletti.

"Non hai mai portato questo maglione," ride Nilima, "chiamo mio marito per sapere come si deve lavare."

"Lascia stare, glielo chiedi dopo, ora basta che lo segni. Devi solo togliere l'odore."

"Ma non so il prezzo."

Quando esco passo davanti all'altra lavanderia, quella italiana. È vuota. Dietro il bancone c'è la signora giovanile con gli occhiali da lettura calati sul naso, legati a una catenella, intenta a fare le parole crociate o il sudoku. Sembra molto più vecchia di quando civettava con il cliente sconosciuto. Provo un rimorso alla bocca dello stomaco: avrei dovuto stare al gioco, non bisognerebbe mai togliere a qualcuno un'occasione di felicità. Immagino per lei un futuro cupo e decadente, di sicuro presto chiuderà. Da Nilima, invece, non c'è nemmeno più spazio tanto sono affastellati gli abiti, e ormai è difficile chiacchierare per più di qualche minuto senza che entri qualcuno che ha fretta. I prezzi delle due lavanderie sono gli stessi, ma non sono l'unica a ritenere la compagnia di Nilima più gradevole. Ora lavori un sacco, le ho detto salutandola con amarezza. Per fortuna, ha risposto, e ha ritirato fuori il Canada e sua sorella, perché un giorno la raggiungerà, bisogna solo convincere suo marito…

Una notte sogno Nilima. Siamo sedute su due poltrone vicine, sembrano quelle di un aereo. Sento nitido il rumore della sua risata, finché non mi accorgo che a decollare è soltanto lei, io sono rimasta indietro, i piedini della mia poltrona sono bloccati. Mi sveglio con l'ansia intorno al collo e non riesco subito a riaddormentarmi. La sogno di nuovo. Sono in lavanderia, la voce del bambino in sottofondo. Nilima e suo marito scherzano su qualcosa che non capisco, sembra si stiano accordando per andare in Canada. Ma no, quell'uomo è più romano di me, non se ne andrà mai. Del resto neanch'io me ne andrò. Non ho mai abbandonato né città né case né lavori né uomini. Ho lasciato che ogni situazione dentro cui mi ero ritrovata si staccasse da me con una gradualità che mi sembrava necessaria. Non sono tipo da lacerazioni, mi dicevo, e intanto scavavo la mia palude. Nel sogno Nilima ride e di nuovo sta partendo, forse con suo marito. È felice. Quando mi sveglio c'è luce nella stanza e la sveglia dice che sono le dieci. Non l'ho sentita, oppure ho dimenticato di programmarla. È la prima volta che non vado al lavoro senza una ragione precisa da quando ho vinto il concorso: ogni giorno in tram so che sto andando a fare il mio dovere in ufficio, e intanto mi dico che prima o poi mi tirerò fuori da lì. Quando chiamo per scusarmi della mia assenza, nessuno se n'è accorto.

Resto in pigiama fino all'ora di pranzo. Mi faccio un tè, apro quattro, cinque cassetti, guardo foto di quando ero appena arrivata in città. Sono passati più di vent'anni. Mi affaccio in balcone senza mettere le pantofole: la luce di Roma è una stronza, è colpa sua per ogni cosa che mi è successa. È sicuramente così: colpa di quella luce disperata che tiene in ostaggio le persone per un momento, quindi per sempre. Domani torno al lavoro, oggi però andrò da Nilima anche se non devo ritirare niente. Non le porterò cappotti né piumoni. La costringerò a pranzare insieme, un panino al bar di fronte, mi dirà di no e riderà fortissimo, ma insisterò e forse vincerò. Chiameremo anche la signora della lavanderia accanto, di due lavanderie potrebbero farne una. Potrebbe venire l'uomo con il cappello, potrei sopportare anche il marito di Nilima. Andrò a prendere il bambino a scuola e lo porterò io dalla madre. Oppure non farò niente fino a sera, quando passerò davanti alle due lavanderie chiuse, camminerò senza i pugni nelle tasche e guarderò il mio quartiere che non ho mai visto.

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