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Come i tassisti sono diventati la categoria più odiata d'Italia

Ci sono poche cose che uniscono cuore a cuore gli italiani, e i sentimenti di rabbia e odio nei confronti dei tassisti sono tra queste. Una riflessione sul futuro dei taxi in Italia al tempo della lotta contro Uber e il mondo.

Ci sono poche cose che uniscono cuore a cuore gli italiani. Dall'estero, gli stereotipi dipingono un'immagine omogenea, ma nella realtà quello degli italiani è un organismo complesso, tenuto insieme da cose come i mondiali di calcio, la fedeltà al bidet e sentimenti di rabbia e odio nei confronti dei tassisti.

Certo, anche attorno ai tassisti vorticano feroci stereotipi ed è certamente irragionevole accusare un'intera categoria sociale di qualcosa; eppure è quel che la maggior parte di noi fa: "Ah, i tassisti" è un lamento innocente e aggraziato al confronto del più comune "Tassisti del cazzo."

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Ieri le vie centrali di Torino sono state paralizzate dalla loro protesta contro Uber, la società californiana che, partita da San Francisco, sta rivoluzionando il trasporto urbano: con una semplice applicazione è infatti possibile ordinare un passaggio da autisti eleganti, spesso con tariffe convenienti (non sempre convenienti, visto che i prezzi sono calcolati da un algoritmo che in alcuni casi spenna i passeggeri).

Nella sua conquista mondiale Uber ha seminato proteste, denunce e persino prese di posizione governative, dagli Usa alla Francia, da Londra a Milano, dove i tassisti hanno reagito con la cortese minaccia di bloccare la città nei giorni dell'Expo. Lo scontro è titanico nei livelli d'antipatia che caratterizzano i due partecipanti: da una parte i citati taxi, dall'altra un colosso controllato da Travis Kalanick, nome, volto e capacità diplomatiche da supervillain della Marvel.

Lo scontro però è già stato vinto da Uber, la cui arroganza si basa sul destino scritto dell'industria dei taxi, specie quella italiana, appesantita da licenze e regole medievali che rendono il mercato dei tassisti aperto quanto quello dei gondolieri a Venezia: una casta che per decenni ha goduto di un anomalo monopolio delle strade cittadine, rifiutando aperture con la minaccia sempre pronta del "blocchiamo le strade."

I più noiosi tra di voi ricorderanno la riforma Bersani del 2006, con la quale l'allora ministro provò a liberalizzare—più o meno—il mercato dei taxi. Immagino sappiate come andò finire: i tassisti scesero in piazza, bloccarono Roma e misero in chiaro quale parte tra una categoria sociale e il Governo avesse l'ultima parola sulla suddetta categoria sociale. In quel caso furono i tassisti e disruptare di mazzate la politica: Uber però non è Bersani.

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Tutt'altro: se c'è qualcosa di distante dal placido accento emiliano di Pierluigi è una start up miliardaria con un aggressivo nome tedesco. E il punto è proprio questo: i tassisti lo sanno e stanno giocando la loro partita finale, il genere di match in cui ogni mossa e risorsa è lecito perché in palio non c'è una timida liberazione bensì la sopravvivenza del proprio posto di lavoro.

L'abitudine a vincere facilmente mal si sposa con l'inevitabilità della loro sconfitta—per questo sembrano aver smesso di ragionare, come dimostra lo striscione esposto in pieno centro di Milano, nel quale si offendeva pesantemente Benedetta Arese Lucini, responsabile di Uber Italia; o come dimostra la polemica anti-ciechi esplosa a Torino, con i tassisti sorpresi a minacciare i membri dell'associazione Apri per essere passati a Uber per i loro spostamenti dopo che il Comune aveva tagliato i buoni taxi.

Non credo sia il caso di sottolineare l'abissale squallore morale evocato dalla frase "minacciare i non vedenti," quindi eviterò di approfondire questo particolare per soffermarmi invece su un dettaglio secondario: "i buoni taxi comunali." I tassisti sono rimasti intoccabili per decenni proprio grazie a questa doppia azione continua: a) la minaccia di proteste ed enormi disagi cittadini come reazione a ogni proposta di legge vagamente liberale; b) i "buoni taxi comunali," sospesi i quali, i membri dell'Apri sono passati alla versione più economica di Uber.

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A rendere tutto più tragicomico è anche l'inutilità di questo scontro, visto che Google (investitore di Uber) sta da tempo lavorando a un'automobile auto-guidante e in questi giorni si è saputo che Apple starebbe facendo la stessa cosa, così come produttori tradizionali come BMW e Nissan. In pratica i tassisti perderanno il lavoro oggi, e gli autisti di Uber un domani: il futuro che si sta costruendo è senza pilota, fatto di vetture che girano per la città e accompagnano i clienti al luogo desiderato, senza deliri politici o ascolti forzati de La Zanzara.

"Guidare una macchina" non sarà più uno skill in grado di garantire un lavoro (non lo sarà nemmeno "scrivere articoli su VICE"). È quindi una battaglia tra due forme di capitalismo poco sano, il primo nella sua fase di tramonto dopo decenni di corporazionismo, il secondo in fortissima ascesa sull'onda della sharing economy destinata a sconvolgere la nostra società.

Ma se ciò riguarda il nostro futuro, il nostro presente con Uber non sarà comunque noioso se il vicepresidente dell'azienda Emil Michael continuerà a sfornare idee come la task-force impegnata a diffamare giornalisti critici nei confronti della società, né se continueranno a piovere accuse di molestie sessuali, improvvisi abbandoni di passeggeri o prezzi assurdi (in alcuni casi superiori ai 500 dollari).

Uber go home. Protesta in tutte. Le lingue del mondo — Giuseppe Legato (@GiuseppeLegato1)February 17, 2015

Nonostante l'allure tragica di questa transizione, la categoria dei tassisti non sembra essere incapace di vestire i panni dell'underdog dei trasporti pronto a soccombere sotto lo scarpone di Uber. Il motivo è semplice e, a mio avviso, particolarmente marcato in Italia: a molte persone i tassisti non piacciono e non piaceranno mai, neppure oggi, nel giorno fatale; è difficile infatti passare per una vittima credibile quando si è stati per decenni il portavoce di istanze illiberali che hanno chiuso e strangolato un intero settore, isolandolo dalla società.

Oggi Uber si propone come novità in grado di spaccare il sistema pro-taxi togliendo lavoro a migliaia di persone. I precedenti sono però troppi e troppo pesanti per convincere i più a solidarizzare verso quello che considerano una sorta di nemico. La futura, probabile, vittoria di Uber si basa anche sul favore popolare che la società sta avendo di riflesso, semplicemente proponendosi come principale alternativa all'andazzo corrente.

Ma un mondo fatto di Uber, Lyft e simili sarà davvero migliore? Quel che è certo è che molti hanno già deciso che potranno vivere meglio con meno taxi nelle loro città.

Segui Pietro su Twitter: @pietrominto