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Tecnologia

Come sto cercando di riprendermi lo spazio per giocare ai videogiochi

Ho studiato videogiochi, leggo e scrivo di videogiochi. Ma non gioco più abbastanza. Ho provato a ricominciare, con una Nintendo Switch e l'ultima edizione di Hyrule Warriors.
Giulia Trincardi
Milan, IT
L'autrice mentre gioca in redazione.

Un ottimo argomento di conversazione quando una serata fatica a decollare è il mio bizzarro titolo di studi: appena spiego a qualcuno di essere “laureata in videogiochi” (il termine tecnico sarebbe Game Studies, ma non suona altrettanto curioso con gli sconosciuti), la conversazione che segue anima i presenti per almeno 10 minuti filati (una manna, quando la festa è noiosa).

Per passione e deformazione, dunque, passo una discreta quantità di tempo a leggere di videogiochi e a interagire con persone che lavorano in questo ambito — designer, teorici o giocatori. Ancora, il mio lavoro attuale riguarda in buona parte scrivere di videogiochi. Eppure, negli ultimi anni, ho praticamente smesso di giocare.

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Che cosa è successo? Le ragioni di questa nolente defezione sono diverse — economiche, logistiche, psicologiche. Proverò a riassumerle qui, perché identificarle mi ha portato a capire cosa fare per ricominciare a giocare: costruirmi uno spazio molto più personale e, soprattutto, itinerante. L’occasione perfetta per testare la teoria si è presentata quando, qualche settimana fa, ci è arrivata in redazione una Nintendo Switch.

L'autrice in fila da circa 150 ore al supermercato.

Vivo a Milano, una città non proprio economica, in cui, se capita di essere animati dal capriccio di abitare a meno di 50 km dal centro e in un appartamento di dimensioni umane, vivere soli è un lusso inarrivabile. Per questo, ho sempre condiviso casa con coinquilini. Ma la convivenza — soprattutto se con persone meravigliose con cui hai stretto svariati patti di sputi e amicizia eterna perché ohana significa famiglia e né si dividono gli scomparti nel frigo né ci si ignora a vicenda — implica meno spazio per le proprie cose, meno tempo solitario, orari e silenzi da rispettare e una media consistente di ospiti improvvisi e cene con amici di amici.

Non posso, in altre parole, monopolizzare il mio salotto (nonché cucina) per giocare ai videogiochi, non per il tempo necessario per godermi davvero una partita a qualsiasi cosa.

Questo, anche perché non possiedo un televisore. Se state pensando “Ehi, potresti prenderti uno schermo” non avete chiaramente idea di quanto sia piccola e priva di superfici utili casa mia (camera compresa). Allestire una postazione fissa — per quanto scarna — non è fattibile, fidatevi. E portarsi dietro console e cavi è un deterrente alla spontaneità e casualità del tutto.

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Allo stesso tempo, viviamo in uno straripare continuo di nuove uscite: la scusa del “non trovo giochi che mi piacciano davvero” non regge più da tempo (e non intendo usarla), ma l’abbondanza ha — paradossalmente — un effetto paralizzante su di me. Riesco ancora a giocare a titoli che prevedono un paio di ore di gameplay — per lo più giochi indipendenti che posso far girare sul portatile — ma affrontare titoli con 40-50 ore di gioco, con l’idea di starmene perdendo almeno un'altra dozzina contemporaneamente, mi provoca una FOMO coi fiocchi. Senza contare che esistono tutta una serie di giochi per cui il divertimento è condizionato dalla bravura del giocatore. Se non investi abbastanza tempo da diventare padrone, per esempio, di un gioco di simulazione, open world e pieno di giocatori connessi allo stesso server pronti a massacrarti, l’esperienza è perlopiù frustrante. Essere un giocatore “occasionale,” in molti casi, non ha alcun senso.

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Ma giocare mi manca e troppo spesso mi trovo a non poter parlare con criterio di qualche titolo interessante, perché resto convinta che per discutere di un gioco sia prima di tutto necessario passarci del tempo sopra.

Analizzata a mente fredda la mia situazione, dunque, ho cercato di tirare le somme e arrivare a una soluzione. È chiaro che devo rivendicare (o costruire da zero) un nuovo spazio fisico e mentale per giocare — uno che possa adeguarsi ai vincoli sociali che ho e che riesca magari a sostituirsi a quel cazzeggio via schermo del tutto infruttuoso in cui cado troppo spesso.

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Qualche tempo fa, è arrivata in redazione una Nintendo Switch, insieme al gioco Hyrule Warriors: Definitive Edition. L’abbiamo prima di tutto attaccata al televisore qui da VICE — perché siamo in fondo eterni bambini e dopo le sei di pomeriggio non c’è responsabilità che tenga — e consumato un paio di partite passando il joy-con da uno all’altro. Poi, considerata la modalità portatile della console, ho deciso di prenderla in prestito per le ferie e condurre un piccolo esperimento.

L'autrice, mentre gioca in redazione a un orario che preferisce non specificare.

Per coincidenza, Hyrule Warriors — sviluppato a partire dal 2015 da Nintendo e Koei Tecmo Games e pubblicato nella sua più recente versione a maggio scorso — si prestava bene allo scopo che avevo in mente. È un gioco d’azione ambientato nel mondo fantastico di Zelda, ma slegato dalla linea principale della famosa saga e dotato di una meccanica di base intuitiva — squassare di legnate orde di nemici —, mosse a effetto e animazioni fluidissime. Nell’ottica di tornare prima di tutto a divertirmi giocando, mi ha portata in fretta a tradire i miei cerebrali punta e clicca, seducendomi con l’allegro e dinamico delirio dei suoi scontri continui ed esenti da una necessità di immersione totale. Non c’era nessuna narrazione complessa o server pieni di giocatori spietati. C’eravamo soltanto io, personaggi di Zelda capaci di ogni prodezza, mucchi di mostri, nessun obbligo.

La missione primaria, in realtà — avevo pianificato di giocare il più possibile e ovunque — è fallita miseramente prima di iniziare. Il motivo ha a che fare con la poco lungimirante scelta di fare le vacanze tra amici che non vedevo da troppo tempo e che nel frattempo hanno ben pensato di riprodursi e capirete che ero troppo commossa per voler isolarmi. A ben vedere, poi, non era neanche il presupposto su cui mi interessava basare la mia rivendicazione — volevo capire come infiltrare i giochi nel mio quotidiano, non nelle occasioni rare (e le ferie sono molto rare).

Non a caso, tornare alla routine è stato il vero motore della piccola rivoluzione sperata — semplicemente perché, nella ripetizione delle giornate, mi sono accorta che le finestre per giocare erano più di quante mi ostinassi a credere negli ultimi tempi. Per giocare non dovevo fare altro che tirare fuori la console dalla borsa (sono pigra, ma ho un limite anche io). Viaggi eterni in treno, spostamenti in metro, file al supermercato, mezze ore altrimenti passate su Instagram mentre aspetto che qualsiasi cosa stia arrostendo nel mio forno sia pronta, momenti di pausa in redazione, momenti di isolamento (non invadente per gli altri) sul mio divano. È stato bello.

L'autrice, mentre ammazza il tempo prima del sonno.

Lo spazio fisico dedicato ai videogiochi è cambiato tanto in senso sociale che personale nel corso della loro diffusione. Siamo passati dai cabinati delle sale giochi alle console casalinghe negli anni Ottanta — dove la televisione aveva già rivoluzionato i salotti delle famiglie — e ora adattiamo le nostre case alla realtà virtuale; allo stesso tempo, è mutato anche lo spazio tra il giocatore e lo strumento con cui gioca, soprattutto con i primi sistemi di motion control, le piattaforme portatili e la rivoluzione dei mobile games e della realtà aumentata. Per quanto la mia esperienza sia chiaramente personale, non avviene in un vacuum — ma nasce anche da una contrattazione con ciò che mi viene offerto dal mercato e dalla definizione di spazio di gioco che continuamente viene rinnovata.

In sintesi, per il momento, credo di aver trovato un metodo efficace per la mia riabilitazione al giocare. Siate felici per me.