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Quanto c'è di Philip Dick nella serie 'Electric Dreams'?

Ok c'è quel 'Philip Dick' nel titolo, ma della genialità dell'autore cyberpunk la serie ha ben poco.
Immagine: screenshot via YouTube

La settimana scorsa mi sono fatto carico della visione delle sei puntate disponibili di Philip Dick's Electric Dreams, una serie antologica trasmessa su Channel 4. L'emittente inglese è la stessa che diede i natali a Black Mirror e, sì, ci sono affinità importanti con — l'ormai — serie netflixiana: anche in Electric Dreams le paure dell'uomo contemporaneo prendono vita, tra distopie del presente e futuri fantascientifici.

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Vero è che mancano altre quattro puntate che usciranno a gennaio del prossimo anno, ma già adesso possiamo fare un recap e capire cosa c’è che non va in un'opera che di primo acchito ha tutto quello che serve per vincere facile: una produzione forte, con tanto di nome grosso all'esecutiva, quello di Bryan Cranston (Breaking Bad); una penna fine in fase di ideazione, quella di Ronald D. Moore (sceneggiatore di svariate stagioni di Star Trek e ideatore di Battlestar Galactica); un cast attoriale in un contesto televisivo britannico dove, si sa, le qualità degli attori vengono esaltate in nome della tradizione. Ma a fare gola a tutti è quel Philip Dick nel titolo, ispirazione di ogni puntata e del mood della serie.

Negli ultimi anni, caratterizzata da una fiera opera di rivalutazione della letteratura di Philip K. Dick, la critica culturale si è lentamente spostata dai suoi romanzi più o meno noti ai racconti. Gli anni ‘50 per lui sono un periodo della vita particolarmente concitato, tra divorzi e lavoretti fatti per pagare le bollette nei dintorni di San Francisco. L’incontro con la fantascienza, nato quasi casualmente, diviene fin da subito un legame professionale. Per Planet Stories, If e The Magazine of Science Fiction il nostro scrive una lunga serie di storie che ancora oggi mostrano una capacità sacra per un mestierante della macchina da scrivere: la sintesi. “Cos’è la realtà?”, e poi, "Da cosa è costituita l’essenza dell’essere umani?" sono le due costanti sparse per un centinaio di short stories.

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Ma quello che invece fa questa serie TV è far sembrare ogni episodio la puntata di un telefilm che non potremo mai vedere, come se fossero tanti pilot differenti, e che purtroppo fanno (male) il verso a Black Mirror. Delle sei puntate di Electric Dreams mi è rimasto ben poco. Ci sono bei momenti, lampi di scenografie oniriche, e una malinconia disperata che attraversa i 360 minuti di visione. Ma poco altro. Tutte le puntate hanno uno scheletro identico, e soprattutto poco a che vedere con i racconti da cui sono tratte.

Per esempio la prima puntata, The Hood Maker, è un tafferuglio di istanze neo-noir dove i trench e la pioggia di un film con Humphrey Bogart si fondono alle distopie architetturali di un futuro recente. Una società dai tratti quasi medievali, dove internet e i computer sono scomparsi, o non sono mai arrivati. La società è dittatoriale e c'è una formazione statale che dà la caccia ai sovversivi tramite l'utilizzo di telepati che leggono la mente e scavano nella coscienza degli individui.

Nella cinquantina di minuti si perdono però interessanti speculazioni, un peccato che si reitera nelle puntate successive: l'episodio è incentrato sulla questione amorosa tra il detective protagonista e la telepate, lasciando indietro altre fortissime tematiche cyberpunk. Ad esempio, si sarebbe potuto disquisire dell'angosciante dicotomia di un potere, quello del controllo, che da strumento diviene dipendenza. Il racconto originale, infatti, è stato scritto in anni vicini a quelli del Pasto Nudo di William Burroughs, che ha fatto un discorso molto simile con la dipendenza da droghe.

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La puntata che funziona meglio è The Commuter (Il sobborgo dimenticato). È l'unica nella quale non esistono auto volanti o distopie varie, ma tutto è ambientato nel mondo suburbano, dai toni grigio-verdi, di un'Inghilterra proprio come possiamo immaginarla. Rispetto all'originale racconto, anch'esso scritto nei '50, ci sono differenze marcate ma vi è una coerenza di fondo e un finale che rendono onore alla puntata in forma antologica. Il racconto, scritto nel 1954 e pubblicato in Italia nella raccolta Le presenze Invisibili, è tra i primi a proporre una sorta di discorso filosofico e pessimistico nei confronti delle realtà.

Il problema, ci dice Dick, non è tanto quale sia il mondo reale rispetto ai vari possibili, ma il cominciare a essere dipendenti ad uno di essi senza accorgercene. La puntata televisiva poi, come anche il racconto, tocca degli argomenti che potremmo considerare appartenenti al movimento psicogeografico. La realtà che muta è quella urbanistica, come se la costruzione di edifici (nel mondo fisico o quello della mente?) fosse una funzione fatta per cancellare la memoria storica del passato. Dick ci dice che il mondo suburbano, quello delle periferie, a differenza della città, è un non-luogo. Interessante, no?

Il quarto episodio si chiama Crazy Diamond, che è una omaggio a Syd Barrett ma non ha davvero niente del suo genio. Il personaggio di Steve Buscemi è al centro di una storia fatta di tanti spunti interessanti inconciliabili però in una cinquantina di minuti: c'è di mezzo l'ambientalismo, la stratificazione sociale, mutazioni genetiche, relazioni amorose e paura di invecchiare. Ci sono maiali antropomorfi, esseri umani e androidi dotati di "anima" umana grazie a delle iniezioni di coscienza-quantistica che vivono su una terra in costante pericolo di erosione. Tutta bella roba, ma la storia non decolla mai, appesantita dalla quantità di elementi possibili e immaginabili.

Quello che spesso mi sono chiesto durante la visione di questa serie è come mai gli ideatori a cogliere una delle poche cose davvero buone di Black Mirror, almeno delle prime due stagioni, e cioè la terribile ansia da finale aperto. Già, perché diciamocelo pure, al di là delle citazioni ai racconti di Dick, pare che questa serie abbia subito la fascinazione verso un'opera che aveva trai suoi punti di forza la capacità di lasciarti spiazzato e perturbato sulle sorti del mondo e dei protagonisti delle sue storie. Cosa che manca quasi del tutto a questo Electric Dreams.

Quanto c'è di Philip Dick in questa serie tv? Ahimè, un po' poco.

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