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Mario Candotto indica la posizione del campo in cui è stato rinchiuso, il 3 maggio del 2015. Foto per gentile concessione dell'autore e di Mario Candotto.
Attualità

Ho intervistato mio nonno, partigiano sopravvissuto al lager di Dachau

Nel 1944 Mario Candotto era una staffetta, e insieme alla famiglia fu deportato a causa di una delazione. Questa è la sua storia.

Col passare del tempo, in Italia e nel resto del mondo ci sono sempre meno testimoni diretti dell'Olocausto. Uno di questi è Mario Candotto, nato a Porpetto (Udine) nel 1926. Durante la seconda Guerra Mondiale fu arrestato insieme alla sua famiglia a causa di una delazione: i due fratelli maggiori erano dei partigiani, e anche lui dava il suo contributo come staffetta. Mentre le sorelle e la madre finirono ad Auschwitz, lui e il padre vennero spediti nel campo di concentramento di Dachau—aperto undici anni prima su iniziativa di Himmler e da cui fino alla chiusura transitarono oltre 200mila persone. In 45mila vi persero la vita.

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Candotto rimase lì un anno, dal 2 giugno del 1944 al 2 giugno del 1945, riuscendo a sopravvivere fino all'arrivo dei soldati americani. Oggi l'uomo è ancora molto attivo in convegni e incontri con le scuole per far conoscere la sua storia. In occasione della Giornata della Memoria, proponiamo questa intervista che ha fatto per noi il nipote, Domiziano Nappo.

VICE: Ciao nonno, cosa facevi durante la guerra?
Mario Candotto: Quando nel 1940 è scoppiata la guerra avevo 14 anni, e sono entrato a lavorare nel cantiere navale di Monfalcone. La società fu militarizzata, iniziarono le ristrettezze e furono adottate le tessere annonarie [tessere nominali con le quali veniva razionato il vitto acquistabile da ognuno]. Tutti le possedevano, difatti il popolo iniziava a notare le mancanze dei beni di prima necessità, e sottobanco iniziarono le prime critiche al fascismo. Le fabbriche poi erano delle fucine di antifascismo, ed essendo la Venezia Giulia una zona bilingue, alla falde del Carso già c'erano i primi movimenti antifascisti. Molti italo-sloveni disertavano per unirsi ai partigiani.

Quand’è che ti hanno catturato? Com’è successo?
Dopo la resa dell’8 settembre 1943, i miei due fratelli—con un altro gruppo di ronchesi [gli abitanti di Ronchi dei Legionari]—erano andati sulle montagne per unirsi ai partigiani. Dopo alcuni giorni, durante la battaglia di Gorizia, mio fratello Massimo fu ucciso in uno scontro con i tedeschi.

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A Ronchi c’era una grossa adesione alla Resistenza; purtroppo abbiamo avuto le nostre “pecore nere”: due ex partigiani hanno fatto la spia sulle famiglie dei partigiani, inclusa la nostra.

Li conoscevi?
Sì, li conoscevo: avevano più o meno la mia età. Il 24 maggio del 1944 i tedeschi arrestarono a Ronchi 70 persone, tra cui me, i miei genitori e le mie sorelle. Abbiamo passato una settimana in carcere al Coroneo a Trieste, e poi sono stato mandato a Dachau. Le donne sono state spedite ad Auschwitz.

Com’è stato il viaggio verso il campo? Cosa ti ricordi dei vagoni del treno?
Durante il viaggio verso Dachau i vagoni erano aperti, ma non è scappato nessuno. Anzi: eravamo felici di andare in Germania, perché al Coroneo avevamo paura di essere condannati a morte.

Mi ricordo un fatto ironico: durante una sosta a Udine ho detto a mio padre: “Andiamo nei vagoni delle donne a vedere come stanno mamma e sorelle.” Un carabiniere, vedendomi vicino ai vagoni, mi disse di andare via; io ingenuamente, gli risposi che ero con loro.

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Il documento di riconoscimento di Mario Candotto rilasciato dalle autorità tedesche, su ordine degli americani, come lasciapassare per tornare in Italia.

Appena entrato nel campo, qual è la prima cosa che hai pensato? All’epoca, si sapeva cos’era un lager e cosa succedeva lì dentro?
In un certo senso non ho pensato a niente, ero ancora un ragazzo di 18 anni e non sapevo ancora nulla. Non riuscivano a comprendere quello che stava succedendo. Pensavo solo a trovare qualcosa da mangiare.

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Il 20 luglio 1944 un fiumano ci informò dell’attentato a Hitler [il fallito "complotto di luglio" ordito per rovesciare Hitler e prenderne il posto], e ci disse che “finalmente finiamo questa vita di stenti e di schiavi.” Realizzai solo in quel momento che eravamo proprio degli schiavi. Per il resto, non sapevo nemmeno cosa fosse un lager.

Quindi, insomma, stando lì dentro non avevi ben chiaro cos’era?
No, proprio no. Le SS del campo ci dissero che “avete solo doveri; come diritti avete solo la morte.” Io avevo il numero 69610, e ancora adesso so dirlo in tedesco tanto mi era entrato in testa. Per loro ero uno stück (pezzo), questo è quello che sapevo.

Sei rimasto a Dachau un anno intero. Com’era la giornata tipo all’interno del campo? E tu, cosa facevi?
Alle 4.30 c’era la sveglia (aufstehen), e poi l’appello (appel). Dovevamo essere veloci a uscire dalle baracche, altrimenti erano botte. In seguito andavamo in fabbrica, dove ci aspettavano 12 ore di lavoro. Davanti al tornio mi sentivo ancora un uomo, ma nel campo—tra kapò e SS—era tutta una bruttura. Quando si tornava, verso le 18, arrivava il rancio che non era mai abbastanza. Si verificavano così molti furti tra i prigionieri.

Mi ricordo che un giorno, mentre cercavo di salire in cima ai letti perché era la zona più calda, avevo appoggiato una fetta di pane sul letto. Dopo due secondi era sparita, e sul momento ero diventato idrofobo—piangevo dalla rabbia. Valdi, un amico con il quale dividevo la branda, mi diede un pezzo del suo pane. Mi ricordo ancora cosa mi disse: “Non piangere Mario, dai, dobbiamo tornare a casa.”

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Quando stavi lì pensi di aver mai perso, anche solo per un momento, il tuo lato umano—magari mettendo da parte amicizie, o persino la tua famiglia?
Ho pensato poco alla mia famiglia, ti dico la verità. Cercavi solo di sopravvivere, eri lì solo per te stesso, non ti passava nemmeno per la testa. Le persone smettevano di conoscersi, anche se all'inizio mio padre mi metteva sempre da parte un pezzetto di pane. All’epoca non comprendevo il sacrificio che stava facendo: l’ho compreso solo dopo.

Però anche Valdi ti aveva dato un pezzo di pane.
Non so perché lo fece, eravamo talmente insieme che…. Non lo so, forse lui non aveva raggiunto quel livello.

A ruoli invertiti avresti fatto la stessa cosa?
Non lo so.

Cosa ti ha fatto capire che la liberazione del campo era vicina?
Quando iniziammo a sentire i bombardamenti in lontananza. Non si lavorava più come prima e si spalavano solo macerie. Un giorno non ci fu nemmeno la sveglia, e le SS si erano volatilizzate. C’erano solo alcuni militari anziani a fare da guardia, insieme ad alcuni russi che ci dissero di stare calmi e aspettare i liberatori [gli americani].

Solo dopo la guerra ho realizzato che i tedeschi ci avevano spersonalizzati. Che eravamo succubi in tutto e per tutto. E che, per noi, le SS erano delle specie di divinità. Solo dopo la guerra sono arrivato a capire quello che avevo passato e quanto mi ero sentito veramente libero uscendo.

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Quando poi ti hanno liberato, come ti sei sentito?
Libero! Solo libero e basta. Non c’era molto entusiasmo, anche perché ormai ce l’aspettavamo. Per noi fu una cosa naturale, insomma.

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Mario Candotto durante il 70esimo anniversario dalla liberazione di Dachau. All'evento, tenutosi nel maggio del 2015 in Germania, erano presenti anche la cancelliera Angela Merkel e alcuni ex soldati americani che avevano partecipato alla liberazione.

Com’è stata invece la vita nel dopoguerra? Hai raccontato tutto subito, o hai avuto paura di non essere creduto?
Quando siamo arrivati a casa non ci credevano. Ci dicevano che era impossibile, e che tutti avevano sofferto la guerra.

È stata dura, ma l’abbiamo superata. Quando le mie sorelle sono tornate dal campo di concentramento di Auschwitz [i genitori non erano sopravvissuti alle durissime condizioni dei lager], proprio qui nella casa dove vivo adesso, ci siamo guardati. Eravamo sbigottiti, persi, derelitti. La sorella maggiore ci disse però che “la vita continua,” ed effettivamente è stato così.

Tra i sopravvissuti come te, parlavate di quello che era successo? Vi confrontavate?
Tra di noi sì. Quando ci vedevamo, ci chiedevamo cose come: “Ti ricordi di questo? Ti ricordi quell’altro?” Con gli altri non si discuteva, non ti credevano. Solo con l’elezione di Saragat alla Presidenza della Repubblica, negli anni Sessanta, si è iniziato a parlarne pubblicamente.

In tutti questi anni hai mai pensato alla vendetta? Se avessi davanti a te il tuo kapò, o peggio ancora un soldato delle SS, riusciresti a fargli ciò che hanno fatto a te e a voi?
No, era l’ultimo pensiero che avevo nella testa. Dopo quello che abbiamo sopportato, eravamo diventati molto più umani di loro.

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Poi, certo, ci sono state delle vendette. A Bergen-Belsen, per esempio, alcune SS sono state uccise dopo l’arrivo dei russi. Pensa che mia sorella Ida addirittura “difese” un soldato tedesco in rotta preso di mira da un deportato.

Hai visto che c’è gente che nega o minimizza l’Olocausto? Ti preoccupa che, ancora adesso, ci siano persone con idee del genere?
Sì, purtroppo c’è ancora questa idea; anzi, adesso ancora di più! Negano tutto, al 100 percento. Penso che il loro unico motivo sia quello di contestare. Ma non mi preoccupa tanto, su questo sono ottimista: l’emancipazione dei popoli va avanti, non torneremo mai indietro. Però bisogna stare sempre in guardia, per far sì che non alzino troppo la voce.

Sono passati più di 75 anni da quando sei stato a Dachau. Da nipote volevo dunque chiederti: cosa vuoi lasciare ai giovani—alle persone come me—con la tua testimonianza?
Comprensione e amore. Amare il prossimo tuo come te stesso, usando le parole cristiane. Cosa ti porta il rancore verso l’altro? Perché ha un altro colore della pelle? Un’altra religione o ideologia? Quando Einstein era in America gli chiesero di che razza fosse, e lui rispose umana. I confini esistono perché sono creazioni umane, tutto qua.

Io continuo ad andare nelle scuole, perché i ragazzi sappiano cos’è successo e perché non succeda mai più. E poi vado per far capire che siamo tutti uguali, e che l’emancipazione e l’uguaglianza dei popoli è necessaria per comprendersi l’un l’altro.

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