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Le fasi della vita di un giovane italiano a Londra

Prima di andarci a vivere, consideravo Londra un po' come scienze politiche: una strada che si prende quando non si sa bene cosa fare. Ma alla fine mi ci sono ritrovato anche io.

L'autore a Londra.

Prima di andarci a vivere, consideravo Londra un po' come scienze politiche: una strada che si prende quando non si sa bene cosa fare. Tutti i miei conoscenti che vivevano a Londra erano o membri annoiati della jeunesse dorée di romacentro che andavano "a far carriera", o colleghi di consegna pizze all'EUR che decidevano di "andare a fare i camerieri a Londra per imparare l'inglese."

Diffidavo di entrambe le categorie, perché mi pareva che entrambe attribuissero a Londra delle capacità soprannaturali: come se bastasse prendere un aereo per trovare un tappeto rosso verso una "carriera", o come se impiattare fish&chips per un paio di mesi potesse trasformare anche Rutelli in Samuel Johnson.

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"Andare a Londra" mi sembrava un cliché, un vezzo sociale. A questo scetticismo si aggiungeva un'animosità personale. Nel 2010 ero andato a trovare un'amica che viveva a Londra, con lo spudorato obiettivo di provarci. Poi lei non c'era stata, e io avevo passato tre giorni a leggere Bret Easton Ellis in un B&B di Earl's Court con i bagni otturati. L'avevo presa con filosofia e avevo deciso che la colpa era di Londra, città di merda.

Poi nel 2013 faccio domanda per un master in giornalismo alla City University di Londra, e vengo preso. Con borsa di studio. Il me stesso del 2010 avrebbe detto no. Ma il me stesso del 2013 è un tipo più riflessivo: l'università è buona, Londra è una delle capitali del giornalismo, e soprattutto il me stesso del 2013 si è rotto le palle di Roma Sud. Sarà che ho studiato scienze politiche, ma compro il biglietto.

Arrivare

Uno dei vantaggi dell'essere studenti è che puoi stare in uno studentato. Per soli 800 euro al mese mi spetta una stanza in un palazzone di Islington (North London, quartiere di giornalisti, ebrei, e attori). Due metri per tre, pavimento di moquette e riscaldamento al massimo già a settembre. Una mattina mi sveglio con il letto madido di sudore e, dopo aver googlato "sudore notturno" mi convinco di avere l'Aids. Certo, sempre meglio che dover passare settimane a cercar casa, e dover pagare la stessa cifra per un buco di culo a Londra Est—che è hipster quindi costa.

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So di dire una banalità quando dico che Londra è cara, ma Londra è cara. A Roma un anno di abbonamento ai mezzi, che fanno schifo, non passano mai, sono solo due linee, ok, ma un anno di abbonamento costa 250 euro; a Londra un mese costa l'equivalente di 162 euro—e solo se rimani nelle due aree centrali (su nove). All'inizio mi persuado di poter fare a meno della tessera dei mezzi, l'Oyster card, e provo a girare solo a piedi e in autobus, snocciolando monetine al conducente. La pagliacciata dura per tre giorni, poi capisco che ci sto rimettendo, oltre a impiegare il doppio del tempo, e mi faccio la Oyster. Accetto l'idea che per godere di un sistema dei trasporti ben oliato potrei dover mangiare solo uova sode per l'ultima settimana di ogni mese. Tanto sono pescetariano.

Studiare

Nel 2013 il Regno Unito ha accolto 425.265 studenti stranieri (di cui 10.000 italiani). La ministra dell'Interno Theresa May si lamenta che sono troppi, ma in realtà portano al paese tonnellate di sterline.

Anche nel mio master la maggior parte degli studenti non è britannica. I tipi con cui faccio amicizia sono messicani e italiani. La ragazza con cui esco per un mese è russa. La tizia con cui provo a uscire, ma non funziona, è malese.

Gli inglesi restano un po' sullo sfondo. Ci sono, ma sembrano estranei alla nostra bolla fatta di international English e catene di caffè simil-Starbucks (Pret, Costa, Caffè Nero), dove persino dietro il bancone è più facile sentire accenti napoletani o portoghesi. Quando, dopo l'ennesima festa a casa di uno della nostra combriccola di expat, andiamo a fare il tour dei locali di Shoreditch o Dalston, gli inglesi sono senza dubbio lì, ma come semplici comparse.

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L'autore con i compagni di università.

Forse sembrano pochi perché sono pochi: negli anni Duemila, più di 600mila anglosassoni hanno lasciato la capitale per trasferirsi in altre parti d'Inghilterra. Oggi formano solo il 45 percento della popolazione londinese. Ci sono varie teorie per spiegare quest'emorragia: una è che l'arrivo di immigrati europei e speculatori edilizi (russi/arabi/cinesi) abbia reso i prezzi e gli affitti delle case a Londra insostenibili. Se la teoria è giusta, comincio a capire perché fuori Londra l'UKIP ha così successo.

Ambientarsi

Ci sono due ragioni per cui Londra è una città di passaggio.

La prima è che tutti camminano svelti. Se nella metro ci sono dei cartelli che invitano a tenere la sinistra è perché i londinesi si muovono come se fossero dei veicoli, con i lampeggianti sostituiti da un codice di "sorry." La cosa ha senso: la città è enorme e decentralizzata—può capitare di dover andare da Sud, a Est, a Nord nel giro della stessa giornata, e il tempo è quello che è.

La seconda cosa è che non tutti restano a camminare per molto. Me lo spiega una giornalista italiana che lavora per una radio inglese. La incontro tramite amici comuni, e lei mi dice che da quel momento sono una delle poche persone che conosce in città. "I miei amici sono andati tutti via," scandisce con il tono di una bambina sopravvissuta a un'apocalisse zombie. "Moltissimi vengono a vivere a Londra ma pochi ci rimangono." Quelli che rimangono devono cercare di costruirsi continuamente una vita, sperando che i nuovi amici non se ne vadano dopo l'estate. Spesso la reazione è un'estrema cautela nello stringere nuovi rapporti (salvo che non si tratti di possibili "connection" utili per un lavoro: in quel caso si tirano fuori i biglietti da visita e ci si dà grandi pacche). Così, mi dice la giornalista, secondo uno studio del 2012 un quarto dei londinesi si sente solo. Secondo un altro studio, a Londra non sei mai a più di due metri di distanza da un ratto. Quindi in realtà non dovresti sentirti solo.

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In università, il professore di "giornalismo pratico" ci chiede di scrivere un articolo sulla città ogni settimana. Così scopro che Londra è un luogo dove si ha l'impressione che stia sempre accadendo qualcosa. Ciò è evidente quando si parla di finanza e soldi, ma va oltre. Le prime della stragrande maggioranza dei film vengono proiettate qui. Quasi tutti i giornali del mondo hanno una sede londinese. Il centro informatico della città—la rotatoria di Old Street, a Shoreditch—partorisce anarchici che vogliono rovesciare il sistema con i Bitcoin. Quando decido di scrivere un articolo di tecnologia m'imbatto nel professor Cheok, uno scienziato specializzato in "internet multisensoriale". Gli chiedo di farmi un esempio, e lui sogghigna e mi dice: "Per esempio, ho inventato il Kissinger: una macchina con cui puoi pomiciare a distanza."

Il lavoro

Non quel Jobcentre, ma un pub-tributo al Jobcentre che sorgeva al suo posto.

Foto di Nicholas Pomeroy.

Per lavorare a Londra devi chiamare un numero verde a pagamento e prenotare un appuntamento in un Jobcentre, una specie di ufficio di collocamento, sempre affollato di stranieri e diviso in cubicoli. Devi aspettare il tuo turno e sederti davanti a un impiegato. "Chi sei? Perché ti trovi in nel Regno Unito?" ti chiede. "Dove vuoi lavorare?" Il tono è fra l'annoiato e l'inquisitorio. Il tipo—biondo, lentigginoso—enuncia le parole come se parlasse con un lattante. Mi aspetto che da un momento all'altro tiri fuori un puzzle e mi chieda di comporlo. Dopo un paio di settimane ti arriva il NINO, che è un codice che serve a lavorare.

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Dal punto di vista lavorativo, ciò che rende Londra diversa dall'Italia è che qui si dà un'opportunità a tutti. Il nepotismo c'è, ma non è uno stile di vita. Se mandi un curriculum decente alla BBC, o al Guardian, la possibilità che ti chiamino per un colloquio o uno stage esiste. L'altra faccia della medaglia è che, visto che una possibilità si dà a tutti, la concorrenza per ottenere un lavoro-lavoro è enorme, specie nel campo del giornalismo. Una volta, alla fine di uno stage, mi capita che il direttore mi chiami nel suo ufficio. Mi frego le mani e pregusto un contratto. Lui, con naturalezza, mi dice: "You're good, but you're not indispensable." Non ha torto: Londra è piena di persone come me, o migliori di me.

"Non preoccupatevi, è solo questione di tempo prima che troviate un posto," dice una volta uno dei professori del master. "Ma nel frattempo, continuate a far girare il vostro nome." Put your name out. È seguendo questa regola che si finisce per diventare freelance—un'altra tipica categoria di People of London che trovi a lavorare nei bar con il wi-fi o negli spazi di co-working, pieni di tizi barbuti e menu vegani.

The Italians

Un sacco di miei amici italiani passano per Londra. Io cerco sempre di incontrarli, così come cerco di tenere i contatti con gli altri italiani che vivono qui. La mia italiana di riferimento è Alessandra, studentessa della LSE che mi accompagna nelle mie avventure—tipo un party sadomaso su cui volevo scrivere un pezzo (deludente: erano tutti vestiti).

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Un altro è Matteo, responsabile eventi di una multinazionale, che al mio arrivo si era incaricato di dirmi ciò che tutti gli italiani a Londra devono sapere: "Qui se vuoi puoi arrivare in alto, ma prima devi farti il culo." Gli italo-londinesi—quando non cercano di fregarsi l'un l'altro—sembrano un gruppo di compagni di bevute che smaltiscono la sbronza insieme. C'è sempre una surreale nostalgia quando ci s'incontra. L'Italia è nominata a malapena; i nomi dei politici sono sempre accompagnati da sorrisi minimizzatori. E ci si comporta come se, invece di essere atterrati su comodi voli Easyjet, si sia stati spediti a Londra in esilio.

Tornare

Torno a Roma per l'estate, e mi rendo conto che sono sfasato. Il mio cervello ha acquisito un ritmo londinese. Come il bambino del Sesto Senso, mi sembra di vedere cose che gli altri non vedono: grandi cambiamenti, grandi urgenze, grandi possibilità. Sproloquio di cose che ho visto a Londra come se fossero di universale conoscenza. Quando incontro i miei amici al solito pub del Torrino li trovo non troppo cambiati rispetto all'anno scorso, mentre a me sembra di essere invecchiato di vent'anni. Alla fine dell'estate, il dilemma se restare a Roma o tornare a Londra si pone per circa un paio d'ore: a Londra sono solo un freelance, ma l'Italia è sempre quella con la disoccupazione giovanile al 40 percento. Almeno qualche altro mese in Inghilterra, per vedere se scappa fuori qualcosa, me lo devo fare. Il giorno prima della ripartenza, Luca, il mio migliore amico, dice qualcosa che mi persguita durante tutto il volo: "Spero che tu non stia sbagliando paese."

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Ripartire

La profezia della giornalista si avvera quando torno a Londra, un giorno prima che tutti i miei amici se ne vadano. Bernie, il mio amico messicano, va a lavorare a Dubai; ad altri è scaduto il visto; altri ancora tornano a lavorare nei loro paesi: non tutto il mondo è Italia. Non è un caso che i pochi rimasti siano quasi tutti italiani—ma sia Alessandra che Matteo sono andati via. È sul divano di uno dei superstiti, Stefano, che mi butto a dormire mentre cerco una nuova casa.

La ricerca è antropologicamente interessante, ed economicamente stimolante. Finita la borsa di studio ho un budget mensile di 500 pound. Mi trovo a visitare stanze senza letto e senza finestre. In un caso mi offrono di dividere un letto matrimoniale con uno sconosciuto. In un altro, quando suono alla porta, mi apre uno spagnolo con gli occhi semichiusi e un tanfo di erba. Mi dice che la stanza ci sarebbe, ma prima devo convincere l'attuale inquilina ad andarsene. Finisco per cercare una sistemazione in famiglia, e per miracolo mi va bene: per 400 pound trovo una stanza nella casa di una coppia di Finsbury Park, zona a maggioranza somala. Lui è un politico laburista, lei un'avvocatessa messicana. Da quattro mesi mangio fajitas.

Cameriere a Londra

Foto di Luke Overin

Per ovviare alla solitudine, a Londra esistono due cose: gli eventi di "networking"—rave, conferenze, feste sadomaso—e Tinder. L'intervallo medio fra l'arrivo a Londra e il download della app è una settimana. È così che inizio finalmente a conoscere qualche inglese. Ora, io non ho nulla contro l'essere vittima di stereotipi. Quando mi chiamano "romano burino" gongolo. Ma vorrei almeno che gli stereotipi usati contro di me fossero qualcosa che incute timore. Incontrando le inglesi scopro invece che il mito italiano è in crisi: "Assomigli al mio amico Andrea, lavora a Starbucks. Lo conosci?" mi dice una tizia di Camden. Un'altra giura di avermi visto servire ai tavoli di "Carluccio's"—pare sia un ristorante anche buono. Le più intellettuali si lanciano in lunghe tirate in cui commiserano l'economia italiana: "Ho letto che il vostro PIL è sceso dello zerovirgola, come è possibile che facciate ancora parte del G8?"

La mia reazione è in genere una ridacchiata divertita. Fino a quando, mentre mi dibatto fra articoli freelance e la ricerca di un lavoro serio, mi rendo conto che non riesco a pagare l'affitto. Comincio a fare il cameriere anch'io, al ristorante "Frontline."

Ora, il mistero vero è come io—CV da pizzaboy e coordinazione da ominide—abbia potuto superare il colloquio. Chi dice "vado a Londra a fare il cameriere" senza alcuna esperienza alle spalle non sa di cosa parla. E c'è una ragione se gli italiani lavorano da Starbuck's, dove la sfida al massimo è riempire una tazza di latte. Duro tre settimane. Poi mando il sughero dentro una bottiglia di Syrah del 2006, e il capo mi dice che è meglio che me ne vada.

Oggi

Può sembrare strano, ma ci ho messo un po' a riprendermi da quel licenziamento. Mi è sembrato un segno che se le cose non vanno non è solo per sfortuna, o perché ci vuole tempo, ma perché semplicemente non sei tagliato—per il giornalismo, o per fare il cameriere. Il motivo del continuo ricambio di gente, è che Londra è una città darwiniana: tutti cercano di acchiappare un'occasione, ma se non sai stare al passo devi accomodarti sul gradino più basso della catena alimentare, o semplicemente fare i bagagli e scomparire. Ho pensato varie volte di farlo. Se ancora sono qui è per due motivi. Il primo è che, bene o male, in città qualche barlume di speranza c'è sempre. Nel mio caso arriva sotto forma di telefonata di una giornalista inglese che avevo aiutato con qualche traduzione. "Sto lavorando a un documentario, e mi servirebbe un assistente che parli italiano," mi dice. La paga non è alta, ma almeno ci si muove.

La seconda ragione è che, se devo fallire, voglio farlo perché me lo merito. Londra da questo punto di vista è equa: se le cose vanno male non puoi incolpare la congiuntura economica, il familismo o la corruzione. Probabilmente stai solo sbagliando qualcosa. È facile (e consolatorio) non farcela in Italia, dove tutto è un casino, e la colpa è sempre di qualcun altro.

Segui Gian su Twitter: @Gmvolpi