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Illustrazione via AdobeStock/Good Studio.
Cultura

L'ultimo anno mi ha fatto rivalutare completamente il rapporto coi miei genitori

I rapporti coi miei erano cristallizzati al momento in cui ero andata via di casa, a 19 anni, con tutti i conflitti dell'epoca. Con la pandemia, le cose sono cambiate.
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A un anno dai primi cenni di lockdown, parliamo di com'è stare 'dentro': dentro le nostre case, ma anche dentro noi stessi

In questi mesi, per via della pandemia, abbiamo passato molto più tempo ‘dentro’: dentro le nostre case, ma anche dentro noi stessi—probabilmente cambiando un po’ il rapporto che abbiamo con entrambi gli aspetti. In questa serie a un anno dai primi cenni di lockdown, vogliamo analizzare il come e il perché. Possibilmente in una luce positiva, perché sul resto abbiamo scritto abbastanza.

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Ho trascorso gran parte della mia vita da maggiorenne lontano dalla famiglia. Negli ultimi tredici anni ho visto i miei genitori a Natale, a Pasqua e qualche giorno ad agosto. Non ho mai approfittato di un weekend lungo o di un ponte per tornare, anche quando studiavo a poche centinaia di chilometri. Mi sono sempre limitata agli obblighi di una figlia del centro-sud Italia che santifica le feste, impacchetta la passata di pomodoro e se ne torna in città.

Uno dei motivi è che per molto tempo tornare dai miei è stato un salto emotivo nel passato. I rapporti con loro erano cristallizzati al momento in cui ero andata via di casa, a 19 anni, con tutti i conflitti, i rancori e gli irrisolti che questa situazione trascinava con sé. 

Lo scorso giugno, però, stremata dal lockdown nei miei pochi metri quadri, ho approfittato del lavoro da remoto per andare a stare un po’ da loro. L’ho fatto senza pensarci troppo, anche solo per vedere l’orizzonte e liberare lo sguardo dal cemento milanese. E dopo anni di rapporti intermittenti, passare del tempo in convivenza forzata, con un’improvvisa vicinanza fisica ed emotiva, ci ha aiutati a costruire una nuova intimità e un rapporto più sereno. 

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È come se il lockdown avesse accelerato un processo di avvicinamento desiderato da tempo, come se la nostra psiche, satura per ciò che stava succedendo nel mondo, volesse eliminare le vecchie tossine. Ho pensato che il motivo di questo riavvicinamento fosse il mio inoltrarmi inesorabile nei trenta e la recente convivenza con il mio ragazzo. Forse è così, ma confrontandomi con alcuni venti-trentenni ho scoperto che anche per altri nel periodo di pandemia c’è stato un cambiamento nel rapporto con i genitori

Stefano, 27 anni, racconta: “Prima di andare via da casa dei miei—ho preso un bilocale non molto lontano da loro, due anni fa—la quotidianità era diventata decisamente tossica. Con il distacco le cose sono migliorate, ma durante i pranzi domenicali spesso tornavano fuori le solite discussioni.” 

“Da quando è iniziata la pandemia, invece, ho sentito per la prima volta un senso di protezione verso i miei genitori, che sono entrambi sui settanta. Durante il primo lockdown andavo io a fare la spesa per loro, per evitare che uscissero di casa. Quando ho scoperto che ci andavano di nascosto, mi sono sentito a tutti gli effetti il loro papà,” ride. 

“Adesso faccio spesso passeggiate con mia madre, e se devo fare cose tipo andare in libreria, chiedo a mio padre di accompagnarmi. Ho avuto un periodo difficile quest’estate e loro erano le uniche persone con cui riuscivo a stare. Alla fine, ti dirò, ci siamo anche divertiti a Capodanno.”

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I miei genitori sono separati. Io vivo con mio padre nell’appartamento in cui sono cresciuta, mentre mia madre è in un’altra città,” racconta Francesca Pia, 23 anni. “Con lui c’è sempre stata affinità caratteriale, ma durante il lockdown abbiamo sviluppato una vera e propria empatia: oltre ad aver guardato assieme mille serie TV e ad aver parlato molto, siamo diventati confidenti. Con mia madre, al contrario, ci siamo viste e sentite meno. Ecco, con lei percepisco una differenza ‘in negativo’ tra prima e dopo la pandemia.”

Ludovica, 30 anni, come me ha approfittato dello smart working per passare più tempo a casa dei suoi dopo aver vissuto per anni all’estero. “Nel mio caso la sorpresa positiva ha riguardato più che altro l’atteggiamento ironico e dissacrante dei miei nei confronti del Covid. Quando abbiamo scoperto, per esempio, che i vicini con cui avevamo passato il Natale erano positivi e abbiamo dovuto fare il tampone d’urgenza, i miei erano i primi a sdrammatizzare. Paradossalmente, ero io quella preoccupata,” racconta. 

“Questa cosa per certi aspetti mi ha spiazzata, ma credo che loro abbiano trovato la forza di ridere in una situazione del genere anche e soprattutto perché c’ero io. Grazie a questo loro piglio scanzonato, comunque, abbiamo trascorso un bel periodo: la convivenza forzata è stata piena di armonia e tolleranza,” continua. “Sono sicura, però, che al di fuori di un evento così universalmente disagevole come una pandemia sarebbe andata in modo diverso.”

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“La situazione che abbiamo vissuto negli ultimi mesi può aver facilitato il ricongiungimento di molte persone che vivono lontane, ed è stata un’occasione per riscoprire la vicinanza familiare che magari si era persa,” mi dice al telefono il Dott. Roberto Callina, psicologo e psicoterapeuta. “Uno dei meccanismi alla base è il fatto che questa pandemia ci ha messi in contatto con noi stessi. Quando viviamo la nostra normalità, spesso siamo presi dagli aspetti più futili, non per forza in senso negativo. Una situazione di reclusione tra le pareti di casa, invece, può spingere a ricucire quei legami che, nel bene e nel male, sono connotati in noi.”

“Inoltre, il fatto di vedere le persone che amiamo in una posizione di maggiore debolezza ci fa sentire responsabili nei loro confronti e ci mette nella condizione di volerli tutelare. È un meccanismo innato, ma finché i nostri genitori sono in salute non si manifesta,” continua Callina. “Questa presa di coscienza, che è un po’ un ribaltamento di ruoli, può essere definita un passo verso l’età adulta—anche se bisogna fare dei distinguo: sentirsi responsabili per i propri genitori a 25 anni va bene, mentre in età evolutiva può essere dannoso.”

Bisogna chiarire che la conflittualità in famiglia, di per sé, non è per forza nociva: può far parte del processo di crescita. “Per gli adolescenti, ad esempio, è uno step evolutivo necessario—e questa fase della vita, negli ultimi decenni, si è notevolmente allungata anche oltre i vent’anni. A 30 anni, però, una relazione sana con i propri genitori dovrebbe essere del tipo adulto-adulto. E può esserlo anche quando è fatta di tasti dolenti e sottintesi. Se continua a esserci una conflittualità forte, invece, risale a dinamiche sviluppate in tempi remoti, quasi sempre nell’infanzia. In ogni caso, se lo si vuole, con il passare degli anni appianare i rapporti diventa più facile.”

E le persone che hanno approfittato di questo periodo per allontanarsi dalle proprie famiglie, che hanno scelto per esempio di passare il Natale da sole, per evitare situazioni familiari forzate o pericolose per il loro equilibrio emotivo?  “Nei casi in cui c’è una sincera preoccupazione per la salute dei genitori, è ovviamente giusto scegliere di non vederli. Se invece la paura di contagiare diventa un alibi psicologico, è semplicemente quello che ci si racconta per limitare il senso di colpa. La mancanza di senso di colpa, in questi casi, è liberatoria.” 

Anche sentirsi sollevati a non vedere la propria famiglia, però, può essere legittimo e maturo. “Certo, se ci si sente meglio vuol dire che si è fatta una scelta in linea con i propri bisogni. Se non ci sono le condizioni, il riavvicinamento non è obbligatorio. L’importante è essere sicuri di quello che si fa e non mentire a se stessi. Anche questo vuol dire crescere.”