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Corsi a pagamento e crisi di nervi: com'è sostenere il test d'ammissione a Medicina

Sono stata una delle migliaia di studenti italiani che si presentano ogni anno al test di ammissione alla facoltà di Medicina—e lo sono stata per ben tre volte. Ecco cosa ho visto, come ho cercato di passarlo e perché non mi sembra giusto.

Uno dei primi tomi di medicina su cui, durante l'infanzia, si è esercitata l'autrice.

Sin da quando ero bambina ho sempre avuto una curiosità morbosa nei confronti del corpo umano. Ricordo nitidamente che nel 1998, a Torino, ci fu la nascita di un bambino anencefalico di nome Gabriele, e tutto un caso mediatico annesso. Ne fui talmente colpita che obbligai mio padre, ginecologo, a descrivermi prima la forma della testa di un anencefalico e, non soddisfatta, a mostrarmi successivamente delle foto prese da un suo libro di Embriologia Clinica. Il tutto potrebbe sembrare una forma di curiosità piuttosto legittima, se non andiamo a considerare il fatto che nel 1998 avevo sei anni.

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È esattamente quest'attitudine a motivare spesso coloro che, nell'estate dopo la maturità, decidono di intraprendere quel salasso dell'anima rappresentato dal test per l'ammissione a Medicina: un monolite di nozionismo e speculazioni studentesche che frantuma da anni i sogni di decine di migliaia di giovani italiani.

Secondo le statistiche, circa un candidato su otto in tutta Italia è ammesso al primo anno, e ciò significa che su circa 80.000 aspiranti medici che in media si presentano ad ogni sessione, circa 70.000 ne restano fuori, di cui buona parte medita per un attimo di fuggire all'estero oppure "ripiegare" su facoltà analoghe, come Farmacia o Scienze Biologiche, con la speranza che, sostenendo esami comuni a entrambi i corsi di laurea, si possa ritentare l'anno successivo. La scorsa settimana, una neodiplomata catanese ha deciso addirittura di scrivere al presidente della Repubblica per denunciare la sproporzione fra le difficoltà dei quesiti proposti dal Ministero e l'effettiva preparazione fornita dalla scuola pubblica, sottolineando l'ingiustizia del dover ricorrere a costosissimi corsi propedeutici per poter essere ammessi.

Visto che personalmente ho combattuto per quasi tre anni contro questo sistema—ricorrendo io stessa ai corsi propedeutici a pagamento—e che dopo continui sacrifici e sconfitte personali sono finalmente riuscita ad entrare nell'Olimpo degli aspiranti operatori della sanità italiana, ho deciso di raccontare la mia personale esperienza a tutti coloro che si apprestano a intraprendere questo percorso.

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L'autrice, ammessa alla facoltà di Medicina, durante un'esercitazione con un manichino.

Come ho detto, sostanzialmente la mia strada sembrava piuttosto chiara fin dall'infanzia: intraprendere il cursus honorum che un domani mi avrebbe portata a procurare lesioni a sconosciuti in una maniera perfettamente legale e con scopo terapeutico.

Per anni incoraggiata dalle maestre d'asilo e dalle babysitter, quindi, quando arrivò il momento di scegliere il liceo le mie opzioni erano sostanzialmente due: lo scientifico—che all'epoca vantava un'offerta formativa con ore e ore di matematica, rientri pomeridiani, laboratori, ore di fisica, chimica e biologia—o il classico, designato da tutti come "il Liceo per antonomasia", la scuola che ti dava una preparazione globale, e che rispondeva allo scientifico con le lingue morte dei padri della medicina, Ippocrate in primis e Galeno poi. Alla fine intrapresi gli studi classici, incoraggiata anche dalla maggioranza dei professori che mi ripeteva: "sarai preparata in tutto, i medici migliori provengono proprio da qui."

Fu con questa convinzione che, cinque anni dopo, affrontai per la prima volta la prova d'ammissione alla facoltà di Medicina e Odontoiatria di Tor Vergata, a Roma; un test ministeriale per neodiplomati, all'epoca strutturato in 80 quesiti con cinque risposte a scelta, di cui: - 40 di Ragionamento Logico e Cultura Generale della serie: "Anita Garibaldi, la compagna dell'Eroe Dei Due Mondi, morì nel 1849 nelle paludi romagnole, mentre fuggiva a seguito del fallimento dell'esperienza;" - 18 di Biologia, della serie: "Quale delle seguenti affermazioni NON è riferibile alle molecole di Interferone;" - 11 di Chimica, tra cui bilanciamenti di reazioni redox e calcoli di stechiometria; - 11 di Matematica e Fisica, comprendenti funzioni, calcoli di geometria analitica e problemi di elettromagnetismo. Per prepararmi comprai un gigantesco e costoso manuale, che conteneva una raccolta di migliaia di quiz, pubblicato da un ente nato dopo l'istituzione ministeriale del numero chiuso. Passai il successivo mese d'agosto a porre crocette su quadratini grigi, a fare calcoli di punteggi, e a inventare graduatorie inesistenti, convinta della solidità della mia cultura generale e fiduciosa dell'esito discreto della mia vacillante preparazione scientifica da autodidatta.

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Poi, i primi giorni di settembre, arrivò inesorabile il giorno del test. Attorno a me c'erano centinaia di candidati provenienti da ogni angolo d'Italia: dal figlio di papà in Jeckerson e mocassini da barca a vela, al ricurvo nerd acneico (che sapevi perfettamente sarebbe passato, e che avresti ritrovato anni dopo ad eseguire la tua colonscopia di controllo) a eredi del Nu-Metal, con piercing al sopracciglio e rasta marroni lunghi fino all'osso sacro. Per ammazzare il tempo, mi ritrovai a parlare con delle ragazze, vicine di posto, con lo stesso spirito che ha un'aspirante reginetta di bellezza con le sue avversarie: finta cortesia, dettata da una disperazione mista a preoccupazione generalizzata.

Tutta questa atmosfera nervosa era inoltre condita dalla presenza di centinaia di genitori tesi come corde di violino, e giornalisti senza scrupoli in famelica attesa del primo povero cristo che sarebbe fuoriuscito da quell'aula al termine della prova.

Nonostante la spavalderia di cui erroneamente mi rivestivo, totalizzai un punteggio medio di 35 punti su 80, non sufficiente a rientrare nella graduatoria del mio ateneo. Di quei 35 punti, circa una trentina li avevo guadagnati rispondendo alle domande di ragionamento logico e cultura generale, unica preziosa eredità lasciatami dei miei studi, mentre risultai completamente carente nelle materie scientifiche. Avevo quindi completamente sottovalutato l'entità di una decisone presa alla fine della terza media.

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A questo punto decisi di non mollare e insistere con altrettanta determinazione.
Mi trasferii ugualmente a Roma, e mi iscrissi ai corsi singoli che offrivano gli atenei, che ti permettevano di sostenere due esami del primo anno a scelta del corso di Medicina—come Fisica Medica, Chimica e Propedeutica Biochimica—e che mi avrebbero dato le basi scientifiche completamente assenti nella mia preparazione. Mia madre, inoltre, mi pagò l'iscrizione a un costosissimo corso privato di 120 ore, mirato proprio alla preparazione per il superamento del test stesso, assente nella cittadina abruzzese in cui sono vissuta fino ai 18 anni. Oltre a ricevere, una volta iscritta, una serie di volumi contenenti simulazioni, materiali interattivi, vergognosi compendi scientifici in carta riciclata e persino gadget come t-shirt e matite, il corso, che si svolgeva in un centro congressi nel centro di Roma, consisteva di uno/due incontri di un paio d'ore alla settimana per un paio di mesi, in cui una serie di esperti per ognuna delle materie contenute nel test teneva lezioni su vari argomenti, concludendo ogni lezione con un'esercitazione composta da domande estratte dai quiz degli anni precedenti.

Nella classe che mi trovai a frequentare, composta per la maggioranza da figli di medici e odontoiatri, si respirava lo stesso clima di tensione che aleggiava tra i candidati al test d'ingresso l'anno precedente. Conobbi gente ritrovatasi a frequentare quel corso per il terzo anno successivo, nonostante i continui insuccessi. I docenti erano molto gentili e disponibili, nonostante nella maggior parte dei casi non fossero focalizzati sulla spiegazione e sulla successiva comprensione globale dell'argomento in sé, ma solo sulla risoluzione arida delle domande poste dal test. Nonostante tutto, trovai molto utili le lezioni mirate al superamento delle domande di Logica, le quali alla fine non erano altro che operazioni di matematica elementare applicate a giochi di parole.

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Fu così che nel settembre successivo, gonfia di nozioni scientifiche date dai miei studi universitari e trucchetti suggeriti da questi costosi insegnanti del corso, ancora una volta, dopo aver passato un'estate a studiare e a fare crocette, mi ritrovai a sostenere il test. Totalizzai un punteggio di circa 30,5, persino inferiore all'anno precedente.

L'autrice, con l'Allegro Chirurgo.

Triste, stanca e moralmente sconfitta, iniziai a dubitare delle mie capacità. L'idea di dover ricominciare tutto quell'iter mi soffocava, ma la prospettiva di iscrivermi a un altro corso di laurea era altrettanto deprimente. Era la triste presa di coscienza di sapere benissimo cosa volere dalla vita e di non riuscire a ottenerlo nonostante gli sforzi. Tutte le sicurezze su me stessa erano cominciate a crollare, tutta l'autostima, tutto l'amor proprio.

Tutti i medici con cui ho avuto modo di rapportarmi in quegli anni, tutti gli studenti di medicina con cui mi confrontavo, tutti i professori universitari, mi dicevano di sopportare stoicamente, di insistere se ci credevo, di mollare se necessario, in quanto si trattava di un test completamente aleatorio, che non valutava la reale preparazione dello studente, tantomeno la sua motivazione. C'era sicuramente bisogno di tanta preparazione, ma anche di una buona dose di fortuna. Mi iscrissi a malincuore al corso di Scienze Biologiche, decisa a non far spendere più migliaia di euro ai miei genitori, ma visto che sono una persona dall'indole fondamentalmente testarda e determinata, decisi di tentare per la terza volta il test, stavolta di nascosto. Senza una massacrante preparazione, senza ansie né pressioni psicologiche, ormai in pace con l'idea di un eventuale esito negativo, lo superai con un punteggio sufficientemente alto da essere assegnata in prima battuta alla sede scelta. Finalmente, nonostante sapessi che non ero più preparata rispetto agli anni precedenti, ero stata ammessa. Una volta dentro, ho visto persone entrate al primo tentativo con punteggi altissimi mollare dopo il primo anno, non sicure della scelta fatta, o non del tutto consce dell'entità del corso di studi. Altri invece mollavano per la pesantezza della professione, che iniziava a manifestarsi già nei discorsi dei professori alla presentazione delle matricole.

Ciò che ho notato in quei primi mesi all'interno dell'università, insomma, è stata la conferma di quello che mi era stato detto da studenti e da medici stessi: il test non è un indice valido del profilo di uno studente di medicina. Non ne valuta l'effettiva preparazione, né garantisce il successo nel perseguire la carriera. Ora sto per frequentare il quarto anno, sono in regola con gli esami e non mi sono mai sentita più soddisfatta e sicura della mia scelta, nonostante questa storia mi abbia fatto perdere di netto due anni rispetto ai miei coetanei. Per quanto riguarda la mia personale esperienza posso quindi affermare, quasi con certezza, che il test d'ammissione, così com'è strutturato, può anche essere un impedimento verso studenti che una volta ammessi non avrebbero alcun problema a portare a termine il percorso di studi.

È giusto che sia mantenuto il numero chiuso, per via delle innumerevoli domande di iscrizione: ma la formula—con quesiti complicati di biologia, chimica e fisica, che spesso sono insegnate in modo approfondito solo in certi licei—non può rischiare di escludere studenti che hanno intrapreso un percorso di studi scelto a 14 anni.

Non so se sia più logico istituire altre forme di sbarramento, oppure ridimensionare il test attuale a quella che è la reale preparazione media dei licei italiani. In modo tale da non dover ricorrere a corsi privati dalla relativa efficacia, i quali in ogni caso non sono purtroppo accessibili ad ogni famiglia italiana media, e che spesso ti lasciano solo una marea di gadget inutili.

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